Abstract
The belonging of the identity into a community, in my personal opinion, is the root of all psychological, sociological, anthropological, religious problem, and in the hearth of the supernatural Kingdom.
We all born in a “we” of a family rooted in a more significantly big “tribe”. Each of us has the deep need to feel embraced, taken into consideration, acknowledged by some “essential people”, and to affirm our own image which might become the secret mainspring of all thoughts and actions.
Looking for the deepest meaning of life in the image of itself among other humans, the performances required to feel recognized assume a totalizing meaning, and they become idols.
Such is the starting point of power struggles, discouragement that brings to depression because of the failure, arrogance arising from success, denigration of other people, conflicts within the family, in which, between the spouses, the game of the different performances might bring one spouse to consider a pebble the performances of the other spouse that the latter considers a huge weight to carry.
The sense of belonging is itself part of human nature, and it is one of the most important ground of it, but having its divine source in love. If such source is removed, humans tend to close themselves, both in good and bad ways, in a “tribe”.
The topic relating to the sphere of relationships is arising. Psychologists know that all problems are linked to relationships. Sociologists take social relationships as the starting point. Religions create a strong confessional belonging. Christianity talks about communion in faith. But generally speaking we remain far from a real reflection on the radical nature of the problem of love as “we”, a common sharing of our destiny, as existential identity con-sensus. It is before everyone’s eyes how it is almost impossible to convince who belongs to a certain different “church”: we all reason starting from our need of love.
Humans kill because of love issues, the belonging to a primary group that justifies the suppression of the “enemy”.
We think in our own hermeneutical fence, and each of us is sure to fully know the truth about all of us! We classify each piece of news or fact within our own semantic spiral, and we live between incommunicable tunnels. Each of us is convinced to think with his own head, while we are thinking of how to increase the power of our image within our own social circle. We do not use our mind to look for the truth, but to reach power for our image.
1968 has generated groups of peers who gave priority to the need of being type approved.
As a result we are now facing an educational emergency, where parents and educators cannot transmit the values accumulated in the past because the current values, that attract the hearts, are those that give power to the group.
Lot of young people are “free” to take drugs, to make sex without any sense of responsibility, to get drunk, but that is not freedom: it is moralistic conformism within a primary group, structured as a religion made of pervert contents.
It seems everything is subjectivism, but subjectivism does not exist: we are guided by collective imperatives, by what Benedict XVI called the “dictatorship of relativism”.
The full article, in italian, is the following:
Comunione primaria

Penso che il nodo principale della nuova evangelizzazione sia nella presa di coscienza della immensa differenza tra una comunione primaria e il modo “secondario” con cui tanti cristiani frequentano la loro parrocchia (…). Può aiutare a capire anche il fatto che una comunione primaria si instaura sempre, con tutti, in realtà le più diverse, e non solo dove ci sono santi fondatori o voti religiosi. Tanti comunisti hanno dato la vita per la loro “chiesa”, e così tanti giovani nazisti, o terroristi, o anche i nostri giovani pronti a tutto, anche a drogarsi, pur di essere accettati dal loro gruppo di coetanei. Dato che un legame significativo, di vero o pseudo amore, di vincolo sociale, ce l’hanno tutti, se non si distingue cosa è primario da tutte le altre relazioni, anche ecclesiali, non si riuscirà a favorire una scelta vera di amore a Cristo in comunione ecclesiale, se non là dove appare un fondatore. Così vediamo che la stragrande maggioranza si assesta inconsciamente in relazioni primarie secolarizzate, o nelle sette (numerosissime in Sud America), o in posizioni ideologiche o nel political correct e pochi in realtà cattoliche carismatiche e primarie.

La pastorale deve essere preceduta dal kerigma del Regno, che introduce in una comunione primaria in Cristo e tra noi. Pastorale e catechesi senza comunione primaria non producono effetti duraturi. Sì invoca la dottrina e l’esempio, si parla dell’ignoranza spaventosa, ma nessuno dice che l’unica vero problema è di come suscitare e allargare comunità primarie, con lo splendore del comandamento nuovo. Le esortazioni senza cammino coinvolgente non attecchiscono. Non le esortazioni ma le appartenenze decidono dell’uso della libertà. (…)

Penso proprio che la prima consapevolezza è quella di capire che nessuno può vivere senza un consenso in una appartenenza socio-religiosa primaria, senza immagine che si rispecchia negli altri; solo i santi possono appoggiarsi momentaneamente solo su Cristo e reggere al venir meno del consenso esistenziale, ma con grande sofferenza. Ognuno alberga nel suo cuore un bisogno primario di amore, che decide quasi tutto nella sua vita.

Tutti fanno sforzi spasmodici pur di avere immagine nella propria cerchia sociale; altri vi si ritrovano con prestazioni sufficienti per reggere il confronto senza accorgersi di coltivare la propria immagine costi quello che costi. Il condizionamento è tanto profondo che finora è stato percepito solo superficialmente da psicologi e sociologi, oltre che da sant’Agostino e qualche altro pensatore cattolico. È il “noi” dell’amore rispetto all’“io-tu” di cui invece siamo molto più coscienti, anche nell’egoismo. È un condizionamento profondo di tipo sociale che impedisce di ascoltare chi non rientra nella propria “tribù”, pur senza sapere di appartenere comunque ad una “tribù” sociale primaria rispetto a tante relazioni funzionali o accidentali. Il condizionamento dell’uso della ragione, usata non certo per cercare la verità oggettiva ma per aver ragione, per avere più potere nel proprio gruppo primario, ci farà capire che la nuova evangelizzazione dovrà affrontare il mondo moderno, la coltre culturale snaturata da tante eresie, capendo che ogni persona ha la sua appartenenza di fondo e che non vale affrontarla per convincerla di un umanesimo migliore. Come vedremo il problema del condizionamento “religioso” è presente in tutti e occorre rispettarlo, come abbiamo imparato a fare con l’ecumenismo e con il dialogo con le altre religioni. Anche i relativisti o scientisti o evoluzionisti sono condizionati da una appartenenza profonda di tipo religioso e pertanto primaria, il problema è che non lo sanno. Sarà questo uno dei due fondamentali aspetti della nuova evangelizzazione, su cui torneremo, entrambi legati alla comprensione profonda del condizionamento primario del bisogno di amore.

Il bisogno congenito di amore, di riconoscimento da parte di altri (gli altri-per-me, direbbe Ricoeur, non certo gli altri-da-me) si configura in reti sociali le più diverse, isole culturali impenetrabili le une alle altre. Il prevalere di comunicazioni secolarizzate favorisce il sorgere di nuove “chiese”, di nuovi “gruppi primari”, di tipo ideologico, o puramente sociale, o di coetanei strettamente chiusi nel loro branco che allontanano sempre più innumerevoli persone dalla radice cristiana. Se poi si va a vedere la vita dei cristiani non secolarizzati, si scopre che hanno una comunione primaria in Cristo, mentre tanti altri che pur si ritengono cristiani l’hanno solo secondaria. La nuova evangelizzazione richiede prendere coscienza di questo condizionamento profondo del cuore umano, che orienta radicalmente l’uso della ragione, le scelte morali, le appartenenze sociali. Tra comunione primaria e secondaria la distanza è siderale, cambia tutto.

Nonostante vi si giri intorno, non si è ancora giunti a riconoscere il primato fontale di un legame significativo interpersonale rispetto all’uso della ragione, rispetto alle scelte che si pensano libere ma lo sono ben poco, rispetto alla ricerca della felicità, rispetto alla genesi dei conflitti in famiglia, sul lavoro, nella società e anche nella Chiesa. In definitiva è il problema del primato dell’amore, che si articola in molti modi, nell’intimo del cuore o nella coppia, nell’amicizia o nella famiglia, nella solidarietà, nelle feste, ecc., ma facendo capo sempre a quello che qui a volte chiamo gruppo primario, anche se può avere molti nomi diversi. È la tribù dei primitivi, o il clan, o il gruppo religioso o ideologico, è la società vitale rispetto alle società funzionali, è il partito militante, ma anche il gruppo del sabato sera o l’insospettato political correct che configura varie aree culturali primarie nella società, con le sue dittature invisibili, in cui si muovono tanti che non sospettano di essere eterodiretti per il bisogno di immagine davanti agli altri. Lo si può studiare anche come spirito di corpo o meglio ancora come “cuore” nel senso biblico, nella versione “dov’è il tuo cuore lì è il tuo tesoro”1.

Se dico “gruppo primario” molti sono sicuri di non averne alcuno, ma se si intende bene il senso cui voglio dargli, allora tutti possono riconoscere un loro legame primario. Parte dal genoma, visto che anche gli animali hanno sempre un branco e che la sessualità rimanda necessariamente a relazioni sociali; smuove dal profondo la vita emotiva e le passioni dominanti; si apre con lo spirito alla diversificazione, e diventa un fatto antropologico fondamentale. Ha dimensione religiosa, perché è il vincolo che dà senso alla vita e per il quale di fatto si è pronti anche a morire. Raggiunge i suoi vertici umani con una sana religione, ma è fortemente condizionato dal peccato originale. Lo si ritrova innalzato nel vincolo in Cristo, nel nuovo Regno operato dallo Spirito Santo a Pentecoste, per scoprire che è il vero segno della Trinità nel genoma umano, come ha potuto dire Benedetto XVI nell’Angelus per la festa della SS. Trinità del 2009. Naturalmente può essere vissuto nella sua pienezza solo nella Chiesa, anche se spesso il vincolo di appartenenza cristiana nella Chiesa non è a livello carismatico, ma solo socio-religioso, e anche questo spesso non è primario, il che vuol dire che il cuore appartiene ad altri, più o meno individuabili. La fede non è solo una virtù personale, ma relazionale, in un tutt’uno con la carità.

Sant’Agostino aveva intuito profondamente il condizionamento profondo dell’amore sulla ragione: amor meus pondus meus, eo feror quocumque feror: solo il mio amore dà consistenza alla mia vita; ovunque voglia andare è il mio amore che mi ci porta. Naturalmente sapeva del peccato originale che incurva il cuore e inganna sul fine ultimo, sul vero amore, lasciandoci in balia di falsi amori: nemo est qui non amet, sed quaeritur quid amet. Bisognerebbe capire bene queste due frasi di sant’Agostino per penetrare nei meandri del cuore umano. Di fatto i pensatori cristiani non hanno approfondito queste intuizioni fantastiche del santo di Ippona. Dalla psicologia alla sociologia, e molto anche dalla letteratura2, si colgono intuizioni profonde e anche descrizioni importanti che penetrano in molti modi questo dato principale della vita umana. La psicologia di Yung, in parte anche Freud, certamente Adler o Victor Frankl, ma soprattutto la teoria dell’attaccamento di John Bowlby ci indicano chiaramente un percorso importante in cui inoltrarsi. La sociologia ha sempre lavorato sul legame sociale, cogliendone l’universalità e distinguendo i legami vitali da quelli funzionali. In modo particolare la teoria relazionale della società di Pierpaolo Donati giunge ad un livello di relazione forte, primaria, che emerge come bene sociale superiore alla somma dei beni individuali. Il “noi” è più di un “io-tu”, si apre e sostanzia tutti i rapporti sia familiari che sociali. Si può dire che il “noi” precede (emerge) sull’io-tu (pur essendo ogni persona emergente rispetto al “noi”, paradosso che solo con la metafisica dell’atto di essere relazionale si può sostenere): ogni persona vale tutta la società, ma solo la società permette alla persona di elevarsi al livello più alto dell’amore. Idrogeno e ossigeno unendosi diventano qualcosa di più della somma degli addendi. Il bene relazionale sostanzia il bene personale. Si può vedere nel bambino che sembra dipendere tutto dall’io-tu, ma se papà e mamma litigano il suo cuore è ferito duramente, nonostante che la mamma lo copra di baci e il padre di regali: la fonte dell’amore è sempre un “noi”. L’amore dei coniugi, che si apre al “noi” familiare e sociale, è il riflesso della Trinità, è l’orma vera della Trinità. Gesù può pregare il Padre dicendo: “perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa” (Gv 17, 22). Lo Spirito Santo è comunione, è il “noi” del Padre e del Figlio, e rimane piuttosto sconosciuto. Così rimane sconosciuta la maturità dell’amore che regge un “noi” sempre più allargato e ricco, nell’amore di condivisione, nei beni relazionali, nella forza inaudita e perlopiù sconosciuta del gruppo primario. Agostino cercava Dio fuori ed era dentro. Noi cerchiamo gli altri fuori e li abbiamo dentro. Il “noi” viene prima dell’io-tu. È il legame di amore primario che condiziona nel “cuore” tutti i rapporti e i valori. Se le donne scoprissero questo farebbero di tutto per impedire separazioni e divorzi, essendo spropositato il danno che una separazione arreca ai figli rispetto alle sofferenze di dover continuare a vivere con un coniuge che non si ama (o, forse: che non si sa amare).

Il problema è che noi ci muoviamo sempre con una appartenenza primaria, ma non c’è ne rendiamo conto. Le realtà più umane si vivono spontaneamente, dalla famiglia, all’amicizia, alla responsabilità, alla lealtà, ecc. Tutte cose che si vivono senza senso critico, senza necessità di studio. A meno che non vengano confuse da una cultura pervertita. Allora diventa necessario studiarle. C’è bisogno di studiare la festa? Nei villaggi di buona tradizione la festa la si viveva spontaneamente, ma oggi, con tanta confusione e perversione solo chi la studia bene può ritrovare il senso decisivo del saper far festa. E così per l’amicizia, o per il matrimonio stesso. Oggi il matrimonio è in grande crisi eppure si studia ancora meno per sposarsi che per prendere la patente. Così ogni accenno al bisogno costitutivo che abbiamo degli altri ci trova tutti consapevoli e consenzienti, ma a livello molto superficiale, così come tutti pensano di saper abbastanza di amore mentre in genere si rimane in grande confusione (vedi il tema “riflessività). La dimensione più profonda, più importante, e più scontata è proprio l’appartenenza primaria e il bisogno di consenso esistenziale che da esso promana. È talmente connaturata ad ogni essere umano che non la si vede, come il pesce che vede tutto (rocce, alghe, altri pesci, ecc.) ma non vede l’acqua! Freud ha rivoluzionato la percezione che la persona ha di se stessa, pur rimanendo in una antropologia molto rozza. Yung ha visto qualcosa in più. Lacan vede il subconscio in modo dialogico, e cioè in una relazione originaria. Ma occorre fare ancora un passo e arrivare al tema dell’amore come trascendentale ad ogni conoscenza. Questo bisogno profondo di consenso in un gruppo primario è il vero subconscio che muove tutto. Il subconscio non è istinto cieco, ma sostanziale bisogno di amore, di riconoscimento.

Se la propria immagine è riconosciuta in una tradizione valida, secondo prestazioni controllabili e comuni, senza confronti ravvicinati e contrastanti, (al contrario di quanto succede frequentemente oggi), si può andare avanti per secoli senza bisogno di senso critico. I contadini di un paese cattolico han potuto trovare consenso in un forte e definito gruppo primario (il villaggio e il parentado) per secoli, senza bisogno di prenderne coscienza. Ma oggi non ci si può esimere dallo studiare questo fenomeno profondamente umano che si sta frantumando in tante “chiese” diverse e sconvolge ogni sentire comune. Per questo ritengo necessario confrontarsi con la disanima che ho svolto nel libro Liberare l’Amore, dove si trova anche una originale spiegazione della fonte profonda del male, del peccato originale, proprio a partire dal bisogno primario di amore.

La teologia trinitaria ha avuto un notevole sviluppo, sia nel noto libro del teologo ortodosso J.D. Zizioulas, Being as communion, sia in vari autori occidentali, tra cui Danielou, G. Greshake, P. Coda, G. Maspero. Non si può negare che la Trinità sia un “gruppo primario”, se si intende “gruppo” come insieme di persone, anche se qualcuno penserà di trovarsi di fronte ad una boutade. È la prima e più importante comunione primaria, essere puro in relazione originaria: Dio è Amore! Comunione di persone: nel fondo dell’essere c’è la relazione, e certamente primaria. Come primario è il Regno di Cristo, instaurato dallo Spirito Santo a Pentecoste. Ma per molti cristiani il Regno è una parola appena conosciuta e del tutto estranea alla loro vita vissuta. Eppure il kerigma che risuonava sulla bocca di Gesù era proprio il Regno. La proposta di Gesù era di incontrarsi con lui nel suo Regno, in comunione con i fratelli.

Importanti sono pure le acquisizioni filosofico-antropologiche di Karol Wojtyla che giunge alla definizione di persona come essere-per-sé e essere-per-gli altri, con due emergenze: quella dell’unicità indisponibile e quella della comunione: non si può essere persona unica se non in comunione. “Uomo e donna lo creò”! Questo lo porta a dire che l’uomo non può vivere senza amore. La definizione di persona inserra sia la libertà che la comunione. Ognuno di noi ha bisogno di cura e di amore, ma anche di sentirsi rispettato nei propri ambiti di libertà. Solo che la libertà è molto condizionata dal bisogno di amore quando questo si incurva e si chiude nel appartenenza primaria vissuto nel peccato originale, dove l’amore in cui siamo stati creati, ad immagine di Dio, lo si cerca solo negli altri e non nella sua fonte divina. Sia chiaro comunque, che pur insistendo in queste mie note sul “noi” primario, come luogo e vita dell’amore, non si può mai dimenticar l’”io” con la sua libertà e responsabilità unica e indisponibile. Gesù ha portato l’”io” alla massima altezza, ma sempre in comunione con Dio e i fratelli. La persona si definisce con nome e cognome: il cognome è il “noi” (e non basta quello dei genitori, dopo la preadolescenza), il nome, l’unicità libera, è l’”io”3. Saper amare vuol dire saper cogliere una persona nella sua unicità e allo stesso tempo aprire quell’incontro unico e irripetibile ad un “noi” che si può allargare. L’illusione dell’illuminismo e della modernità è stata quella di poter ragionare solo con la propria mente; ma la modernità ha fallito completamene sull’alterità, sulla relazione di fondo, sull’amore! La vera personalità non è soggettivistica, ma unica in comunione. E anche gli illuministi formano un’area di consenso primario che li porta ad usare la ragione forzandola secondo il loro dogma.

Il problema radicale dell’amore ha radici fisiche ed emotive, oltre che spirituali: il concepimento innesta immediatamente il feto in un gruppo primario e non solo nella madre. La sessualità dice di una presenza di altri necessaria per configurare il proprio io, maschile o femminile. Ma il genoma non si ferma alla sessualità per indicare la presenza necessaria di altri per definire e vivere la propria esistenza. Tutto il mondo emotivo, che fa capo al corpo oltre che allo spirito, rende indispensabile l’appartenenza. L’emotività percepisce il bene relazionale. Molto importante in questo senso è la scoperta dei neuroni-specchio. Le passioni più profonde, l’emozione-guida, fanno capo direttamente al bisogno primario degli altri. Naturalmente non si può dedurre che tutto sia biologico nell’uomo; basti pensare ad una emotività molto forte, all’innamoramento, per vedere che esiste certamente il condizionamento biologico, che tra l’altro riesce a reggere l’innamoramento per circa due anni, ma esiste anche la persona amata e da cui ci si sente amati, che non fa parte della chimica del proprio cervello. E invece è facile vedere come tutto diventi spirituale per la presenza forte dei costumi sociali, ben diversi e ben diversificati rispetto al branco degli animali, che non cambia nei secoli se non per variazioni secondarie legate al condizionamento ambientale. Il coinvolgimento del genoma nel bisogno di gruppo primario aiuta a capire che si tratta di un problema che riguarda proprio tutti, anche i tanti che pensano di vivere individualisticamente. Allo stesso tempo spiega come il tema sia rimasto in ombra per tanti secoli, visto che ce lo portiamo dentro anche senza pensarci. Si può pensare, per capire meglio, al senso di lealtà. La vera lealtà non è mossa da calcoli egoistici, ma dal profondo senso di appartenenza. È la radice profonda dello spirito di corpo, presente in tutti anche se in forme diverse e spesso ignorate dal soggetto stesso, e presiede, in genere inconsciamente, alle operazioni dell’intelligenza, dell’emotività, delle relazioni sociali. Tutti abbiamo bisogno di questo riconoscimento, aperto oltre la famiglia, per il quale si è pronti a perdere la vita. Si può dimostrare che ogni persona, per egoista che sia, ha qualcuno per cui è disposta a rischiare la vita (si potrebbero fare molti esempi tratti dalle pagine dei giornali, quotidianamente). L’uomo si apre spiritualmente a tante possibilità, migliori o peggiori, ma tutte con la loro «religione», perché l’uomo è religioso sempre, anche se con contenuti perversi.

Nonostante i numerosi approcci di cui dicevamo, manca ancora una sufficiente consapevolezza di quello che si può indicare come il condizionamento primario, con la sua pressione su ogni pensiero e sui comportamenti. Occorre capire la differenza siderale tra legame primario e rapporti funzionali o secondari. Un adolescente ha il gruppo primario fuori dalla scuola (che è soltanto gruppo secondario) e troppo spesso anche fuori dalla parrocchia. Per molti giovani il gruppo primario è costituito solo da coetanei, e questo causa l’emergenza educativa, perché il cuore lascia passare alla mente solo quello che dà importanza nel gruppo: genitori, sacerdoti, professori, vedono vanificarsi i loro sforzi, perché c’è una coltre di piombo che impedisce di far penetrare messaggi dall’alto, visto che i coetanei comunicano tra loro con confronti e attese legate al presente, all’immediato futuro, ma non certo al passato o al futuro. Molto diverso è un gruppo cattolico intergenerazionale, dove nessuno propone cose inopportune perché non sarebbero accettate dai responsabili. Tra i coetanei ci sarà sempre chi propone una cosa negativa, e tutti lo seguiranno per non essere presi in giro ed emarginati nel gruppo. Dato che nel gruppo primario si cerca la propria immagine davanti agli altri, questo avviene rispondendo alle attese che il gruppo esprime e ai ruoli che ognuno ha nel gruppo. In un gruppo intergenerazionale le attese sono quelle dei grandi (studio, virtù, mete sul futuro, insieme ad un sano divertimento), mentre in un gruppo di coetanei ci si misura con prestazioni legate al presente e pertanto assai banali, ma non è banale esser riconosciuti nel gruppo. Basta essere presi in giro su Facebook per essere portati al suicidio!

Per l’appartenenza primaria si è pronti anche a dar la vita (in genere senza saperlo) mentre per i rapporti secondari si misurano tutte le prestazioni secondo convenienza. Capendolo bene si scopre che qui risiede l’anima religiosa di ogni uomo, anche se si dichiara ateo. E vedremo che qui si può intravedere il radicamento del peccato originale, non per il fatto che ognuno ha un gruppo primario, che è di natura, voluto da Dio, ma per il fatto che il cuore bisognoso di amore si incurva e vive tutto in funzione del potere e di immagine che accumula nel suo appartenere. Verso Gesù il santo ha un innamoramento; ma chi non è santo è però pronto a morire per il legame sociale primario e poco riesce a dare a Cristo anche quando può dire di essere cristiano. La fede viva può dare sentimenti più profondi dell’innamoramento; succede però raramente. La vera gioia cristiana, infatti, è gioia di chi vede la perla preziosa. Ecco perché non dipende dal merito del nostro agire (gaudium etenim Domini vostra fortitudo est). Gioia come grazia di contemplazione. Ma in genere il cuore è catturato dalla comunione primaria. Lì il cuore sente la gioia, in genere idolatrica, di successo, di affetto umano che conquista il cuore ma non per Cristo. Se si appartiene ad una comunione cristiana primaria non basta ancora, anche se aperta al carisma. Però è l’unica strada per entrare nel Vangelo. Non basta ancora perché tante gioie apostoliche o d’affetto sono ancora a livello socio-religioso. Occorre che il cuore si apra all’azione dello Spirito Santo, per intravvedere il volto di Gesù risorto, la gloria di Dio, e riempirsi di gioia.

Sappiamo cos’è l’innamoramento; un po’ meno si conosce lo statu nascenti4: l’accoglienza in un gruppo primario opera una presa emotiva che ha molti tratti simili all’innamoramento. Ai giovani è facile sperimentare l’entusiasmo che dà l’essere accolti dagli altri, e succede con qualunque forma di appartenenza, valida o perversa. Il segreto è imbattersi in un gruppo cristiano carismatico, anche se ancora non invaghiti direttamente da Cristo. Poi si va capendo che vogliamo amare Cristo più di una fidanzata il fidanzato, più di una madre il proprio figlio, solo che per questi legami ci sono immense forze emotive, mentre per la conversione del cuore a Cristo occorre l’azione dello Spirito Santo. Per la lotta ascetica contiamo sui sacramenti, sulla grazia come dono gratuito, ma si rimane lontani dai due esempi riportati, perché Gesù non si vede. Solo una appartenenza primaria carismatico, con la forza dello statu nascenti può far intendere che con Cristo c’è il massimo amore, e farlo desiderare sinceramente, anche se lo statu nascenti normalmente non è mosso dal vincolo soprannaturale del comandamento nuovo. Ma anche l’innamoramento e l’amore materno sono in genere poco autentici: ci vuole una conversione profonda per crescere nell’amore vero.

Si può dare uno sguardo al negativo: quanti crimini, quanta sofferenza, quante guerre, quanta violenza, quanti drammi familiari, quanta sofferenza psichica in modo particolare. Dietro c’è sempre il problema che si può definire “dell’amore”, perché ognuno agisce sempre in funzione del potere dentro un gruppo primario: tutto ciò che potenzia la propria immagine davanti alle persone essenziali viene perseguito senza badare a sacrifici, fino alla morte. Si muore per Hitler, per Stalin, per Pol Pot, per Ben Laden, o si uccide per le Bestie di Satana, per Allah, per la patria. Il fenomeno dei kamikaze dovrebbe far riflettere sul condizionamento del gruppo primario; si può pensare che siano fanatici, ma non è così. Intanto sono tanti, dai giapponesi nella seconda guerra mondiale agli innumerevoli ragazzi mandati al massacro dai terroristi islamici; a ben vedere non sono diversi dagli altri giovani, se non per ambiente in cui sono cresciuti, e cioè per il gruppo primario che hanno impattato nella loro vita. Cosa porta a tante nefandezze? Il bisogno di essere accolti e considerati nel proprio gruppo primario. Il bisogno assoluto di consenso esistenziale dentro la propria “chiesa”. E questo a qualunque età, anche se col tempo molte sfumature cambiano. Ogni cosa che si dice o che si fa può accrescere la considerazione degli altri, o alienarla.

In ogni gruppo c’è un dogma da conoscere e brandire come ortodossia interna al gruppo, come verità assoluta, che promette salvezza. Ci sono comportamenti, di carattere morale che sottopongono sempre al giudizio degli altri; ci sono prestazioni che ottengono il plauso e per questo tutti cercano il successo in qualunque prestazione che il cuore presagisce foriera di consenso. Ci sono riti e luoghi di riunione, “sacerdoti” e libri sacri, in una configurazione del cuore umano e dei suoi rapporti primari che è di carattere squisitamente religioso, anche se non appare Dio5. L’ateismo, è bene ripetere, non è una smentita di ciò, perché ogni ateo è idolatra, coltiva il suo «assoluto», e ha una «chiesa segreta» in cui si muove con tutto il suo essere. Il contrario della religione non è l’ateismo, bensì l’idolatria6, che è religione al rovescio. Capire questo e farlo capire a chi si ritiene non credente e pienamente razionale è di somma importanza per instaurare un dialogo costruttivo, nel rispetto delle altrui appartenenze, e aprire spiragli importanti per la nuova evangelizzazione, come vedremo.

Le prestazioni interne al gruppo sono varie. Basti pensare ad una tribù: ci sono i guerrieri e i contadini; le donne che generano; i vecchi che raccontano la storia e le tradizioni della tribù, i sacerdoti, i capi, ecc. E si capisce che dalle prestazioni interne, dal dogma e dalla morale nascano con molta facilità giudizi e contrasti, paragoni e conflittualità, paura di sbagliare, accuse, lotte di potere interno al gruppo, ecc. Stupenda in questo senso è l’analisi del principio mimetico in azione sempre dentro ogni tribù, compiuta da René Girard. Non posso riportare un riassunto delle sue analisi, ma può bastare un’affermazione sua: «Satana fa tutt’uno con i meccanismi circolari della violenza, con l’imprigionamento degli uomini nei sistemi culturali o filosofici che assicurano con la violenza il loro modus vivendi»7. In questo senso anche la famiglia, nel suo piccolo è formata da un vincolo primario che nasce con l’innamoramento ma che poi si sviluppa con ruoli diversi, che si caricano di assoluto e portano a discussioni anche violente. Spesso quello che per una moglie è una montagna che le crolla addosso, per il marito è un sassolino insignificante, e non si capiscono. Basti pensare ai problemi con la suocera o anche con i ritardi dal lavoro.

A noi interessa esaminare il fenomeno del cuore umano nella sua relazione primaria e come si deve proporre una comunione nuova se si vuole evangelizzare. Va da sé che poi rimangono tanti problemi all’interno di ogni comunione primaria, anche cattolica, che possono irretire inizi molto belli e giusti, che possono dar luogo ad un prevalere della istituzione sulla comunione, con tante sofferenze anche dentro la Chiesa. Solo nel confronto tra le varie appartenenze primarie la ragione riprende la sua funzione di verità oggettiva, pur rimanendo sempre molto condizionata. Per affrontare meglio queste problematiche lungo la storia di ogni cammino ecclesiale ho scritto Liberare l’Amore e anche Saper di amore.

Il fatto di “appartenere” non è un limite alla libertà, e non è un segno di dipendenza mortificante. Lo è spesso, quasi sempre, per via del peccato originale, ma di per sé è parte sostanziale del disegno divino. All’apice della libertà c’è un legame di amore che si apre a tutti, pur senza svanire nell’impersonale. L’uomo non è né servo né padrone di sé stesso: è figlio di Dio, un legame nella libertà. Il padrone è ab-solutus, ma l’uomo non è tale; il servo ha legame che sottomette. Solo il figlio ha legame che innalza. Di per sé la libertà è sempre per l’amore, per una appartenenza significativa basata su di un rapporto necessario di amore; la vera libertà è realtà relazionale. È Dio che ci ha creato nella comunione e la comunione primaria è parte della natura umana, presente nel cuore di ognuno attraverso la famiglia e la società. Ma è anche il cuore del disegno di salvezza: un amore nuovo, un Regno nuovo, una Pentecoste, che innalza il vincolo primario a livello trinitario, da dove tutto scaturisce e dove tutto è finalizzato nel disegno divino.

Tanto è così che, dopo aver visto al negativo la forza debordante della appartenenza primaria su ognuno, possiamo vederla al positivo, con tanti esempi meravigliosi di eroismo, di carità, di audacia. E non solo tra i santi e tra i martiri. Ogni causa, ogni appartenenza primaria, può avere i suoi martiri. Agostino avvertiva che non è la morte a fare i martiri ma la causa. Si muore per qualunque causa, ma si è martiri di Cristo solo quando Gesù ci vale più del gruppo primario in cui sociologicamente o religiosamente ci troviamo a vivere. Comunque è importante vedere il bene che si può fare attraverso un ideale positivo, come può essere quello di medici volontari nel mondo, varie forme di volontariato, atti di eroismo per salvare amici o gente in pericolo, ecc. E non bisogna dimenticare che tutti, specie tra i giovani, sono pronti a partire per una guerra, quando la patria chiama, col rischio di morire. Non è tanto l’amore alla patria che muove, quanto il “villaggio”in cui ci si ritrova, che comprende sempre l’apprezzamento del “vicinato”; se un giovane si imboscasse non potrebbe più uscire in piazza, sarebbe considerato vigliacco, mentre gli altri partono, pronti a morire. È facile del resto constatare che normalmente si ha un forte senso di lealtà verso coloro che contano su di noi; è qualcosa che viene dal cuore e porta a grandi sacrifici, se necessari.

È fondamentale capire che per il gruppo primario si fa qualunque sacrificio, senza chiamarlo tale. Facile da vedere con una madre per un figlio, o per una moglie per il marito, ma anche i mariti sono pronti a morire per difendere i propri cari. Tuttavia l’uomo si muove nel suo gruppo primario (normalmente senza coscienza di ciò) attraverso il lavoro o le prestazioni sociali, insieme a quelle familiari. E per il lavoro si è pronti ad ogni sacrificio8. E non è solo per il bisogno di procacciarsi i mezzi per sostenere la famiglia. La sensibilità al successo o all’insuccesso è spasmodica. Ed è questione di immagine davanti agli altri. Si fanno sacrifici fino alla morte per una ideologia, ma in realtà è perché è il dogma imperante nel gruppo primario. È sconsolante vedere quali sacrifici si possono fare per una causa politica o ideologica e quanti cristiani sfuggano ai minimi doveri verso Cristo o ne sentono un peso indesiderato, pronti ad ogni scusa per scansarlo. Ma su questo torneremo.

Dove il l’appartenenza primaria diventa decisiva è nei valori culturali, religiosi, filosofici; nel modo di pensare. La frase di Girard che abbiamo citato indica qualcosa di molto profondo, capace di convincere “sinceramente” che le idee del proprio gruppo primario siano quelle più vere, di qualunque genere esse siano. Nietzsche lo diceva a modo suo, ma con profondo intuito, in La gaia scienza: “Di matti, se li consideriamo uno ad uno, non ce n’è molti. Ma se prendiamo i partiti, le etnie, le religioni … sono tutti matti”. Naturalmente ad iniziare da lui, che si sentiva salvatore del mondo, come un iniziatore di una nuova religione, con tanto di lettori e seguaci, con tanto di “verità dogmatica” e di comportamenti morali, che un ateo come lui non dovrebbe avere, perché vale la parola di Dostoevskij: se Dio non esiste tutto è possibile. Ma gli atei hanno sempre morale, perché hanno sempre “chiesa”, hanno sempre dogma, hanno sempre un culto o dei riti, hanno sempre profeti e libri sacri.9 Del resto lo intuiva anche Nietzsche quando diceva che la filosofia non è altro che la storia dei filosofi. Quando un giovane ha una bella idea può lavorare tutta la vita ad aumentare il potere su altri che l’idea può dare. E se ha successo e lettori o seguaci è come se avesse inventato una nuova setta, ben convinto che le sue idee siano le più giuste, e pertanto salvifiche, religiose, dogmatiche. Il gruppo primario può rendersi presente nel cuore di un giovane che ha avuto una idea importante, in qualunque campo, per il convincimento profondo che un giorno le persone importanti lo riconosceranno. Non c’è bisogno di vedere gente intorno a me, per avere un gruppo primario nel cuore! Farà grandi sacrifici senza sentirli; studierà fino a tarda notte, rinuncerà ad amici “banali”, ma perché lui sente già nel suo cuore chi lo riconoscerà. Fin che regge la speranza di un successo si procede con apparente libertà e soddisfazione. Ma si dipende sempre in qualche modo dal successo, che presto diventa paura di non ottenere riconoscimento adeguato. È la grande schiavitù dell’uomo: dipendere dal giudizio degli altri. È lo spirito da schiavi per aver paura, dei cui parla san Paolo nella lettera ai Romani.

Così c’è una “chiesa” illuminista, una relativista, una scientista, o anche minori, dietro questo o quel “profeta”. Pannella, in Italia, è esempio perfetto di una ideologia di natura prettamente religiosa, anche se dai valori rovesciati10. Ugualmente il bisogno di amore primario si può rovesciare anche in un barbone, magari nobile decaduto, che si isola da tutti; di fatto sta gridando al mondo: volete accorgervi che io non ho bisogno di voi? Perché un legame primario si avvale anche della protesta, della vendetta, del risentimento, ecc.

Non si pensa per cercare la verità, ma per avere più potere nella rete sociale di riferimento. Questo spiega perché non ci si capisca con chi non la pensa come “noi”. È come cercare il dialogo tra ciechi e sordomuti. Viviamo messi ciascuno nel proprio tunnel; ogni notizia si rinfrange sulle pareti del tunnel e i tunnel rimangono incomunicati. Ogni tunnel filtra le notizie e le colora a suo modo. C’è un problema profondo a monte della comunicazione e dell’apprendimento. Se un cattolico cerca di spiegare Gesù ad un relativista è peggio che parlare ad un musulmano; crede di trovarsi davanti ad una persona che pensa con la propria testa, ma non conosce la sua appartenenza esistenziale. Ci si muove sottomessi a vere dittature invisibili. Qualcuno ha detto che la verità è sempre valida e attira sempre, oggi come mille anni fa. È vero, ma non si capisce nulla se non la si coniuga con il condizionamento primario. È facile capire il condizionamento all’uso della ragione che proviene dalle religioni e dai gruppi ideologici, ma oggi è fondamentale capire quello altrettanto coriaceo dei gruppi di coetanei e della rete sociale che determina il political correct.

Il problema principale sarà quello di convincere tutti che pure loro hanno una appartenenza di carattere religioso anche se credono di pensare con la propria testa. Può essere facile constatare che non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Il proverbio si conosce ma non si sa da quali profondità del cuore emerge. Tanto che Einstein poteva dire che è più facile rompere l’atomo che un pregiudizio.

Questo potrebbe far pensare che la verità dipenda dalla società e che pertanto non ci sia una verità oggettiva. In realtà è un po’ come per la libertà: tutti crediamo di muoverci liberamente, mentre molto è mosso dal bisogno di amore, anche in modo cieco. La libertà però rimane, pur se ridimensionata. Per definire una persona occorre nome e cognome. Il cognome, o consenso identitario in un gruppo primario, con tanto di massiccio spirito di corpo, può prevalere, ma non toglierà mai il nome, l’unicità, la libertà della persona. Ugualmente è per la verità. Tutti crediamo di saper ragionare e di pensare il vero. Eppure ogni gruppo primario ha idee diverse, spesso aberranti o banali. Questo deve convincere che il problema dell’amore, non solo per i bambini, vien molto prima del problema della verità oggettiva. Però non ci vuole molto a vedere che ogni gruppo ha un dogma, ma tutti molto diversi e ben diversamente rapportati al bene delle persone. Nel proprio gruppo ognuno pensa di conoscere il bene che fa per tutti, ma se si guardano gli altri gruppi, le altre ideologie, le altre “chiese”, sette o religioni, tutti vedono una differenza qualitativa, più di umano o meno di umano. Non è lo stesso dare la vita per Hitler che per difendere una patria aggredita. Non è lo stesso avere un figlio che studia fino a tarda notte e un altro che non studia ed è spesso in discoteca a drogarsi. Non è lo stesso imbattersi negli scout o in un gruppo di naziskin, e così via. Appare subito il problema della verità oggettiva, salvo che dal proprio osservatorio sia sempre quella del proprio gruppo sociale o religioso. Se non si coglie questo condizionamento della nostra ragione non è possibile un dialogo costruttivo nel mondo della cultura e della società civile.

Si pensa che la cultura crei tante confusioni ai giovani. Certamente c’è un grosso problema di cultura, ma occorre capire che uno fa proprie solo le idee che gli danno potere presso gli altri. Se alla televisione si vede uno sbarco di immigrati, uno scout penserà subito di poterli aiutare, un naziskin penserà subito di doverli rigettare in mare. Lo stesso stimolo culturale determina risposte opposte. Se il Papa parla, un cattolico “primario” farà suo tutto ciò che dice; un cattolico “secondario” selezionerà, un relativista arriverà anche a disprezzare. La stessa idea è sempre filtrata dal gruppo primario cui si appartiene11.

Dove in qualche modo si è arrivati a riconoscere il primato dell’appartenenza alla propria chiesa rispetto alle ragioni o verità su cui si vorrebbe concordare è nell’ecumenismo e ultimamente nel dialogo religioso. Dopo 400 anni di guerre e lotte apologetiche tra cattolici e protestanti si è vista l’importanza dell’ecumenismo, dove non prevale la discussione apologetica, ma il conoscersi, rispettandosi nelle reciproche appartenenze. La nuova evangelizzazione richiede un dialogo culturale che può essere impostato solo sulla constatazione che tutti “appartengono” ad una tribù culturale, di carattere religioso e in genere settario. Inutile parlare sull’uomo se razionalisti, scientisti o relativisti non riconoscono che sono “chiesa”, più dogmatici dei cattolici, con punte di fondamentalismo “laico” che li avvicina al peggior Islam. Noi cattolici pure dobbiamo riconoscere che abbiamo sempre impostato il dibattito culturale su base apologetica, per convincere gli altri della miglior bontà delle nostre idee, provocando reazione uguale e contraria. L’apologetica serve solo in parte per gli adepti (cosa da non disprezzarsi), col rischio però di creare più alti steccati. Anche noi siamo condizionati dal legame primario in cui ci muoviamo, che non è sempre al livello dell’amore santificante. Riconoscere le appartenenze degli altri non vorrà dire che un credo vale l’altro e sarà sempre più opportuno testimoniare la nostra fede, ma non certamente per metterla nel dialogo culturale e religioso. Mentre si dialoga sull’uomo e la sua dimensione religiosa, si testimonia (testimoniare non vuol dire convincere, istruire, ma dire il bene che la fede opera in me, senza pretendere che gli altri capiscano) Cristo presente nella nostra vita cristiana. Il dialogo vale per la dimensione religiosa dell’uomo, non per la dimensione di fede rivelata, dove vale solo la testimonianza personale e di comunione nuova. Il cristianesimo è anche una religione e pertanto si può dialogare con le altre religioni. Fondamentale però è capire che nel cristianesimo occorre distinguere ciò che è di fede e ciò che è di religione, come studio nel libro “Saper di Amore. Distinguere nel cristianesimo la fede dalla religione”, altrimenti non solo riduciamo la maggior parte dei cattolici a vivere solo di religione, ma faremmo grosse confusioni nel dialogo sia ecumenico che interreligioso. Con gli uomini che pensano di usare solo la ragione e che pertanto non sono ben disposti ad aprirsi in dialogo con chi, per loro, si attacca a dogmi di fede che la ragione non riesce a provare scientificamente, occorre approfondire proprio la loro dimensione religiosa, fideistica, dogmatica e moralistica. Dopo di che si potrà instaurare un dialogo tra appartenenze diverse, nel rispetto reciproco, come nell’ecumenismo. E sarà possibile migliorare la condizione sociale, educativa, ludica della società, pronti insieme a far fronte alle sette di tipo totalitario, antidemocratico, violento, in modo da far crescere la convivenza democratica e creare un clima in cui la testimonianza cristiana possa esercitarsi liberamente, senza farla entrare nel dialogo culturale diretto, ma potendo attrarre oltremodo, una volta che tutti hanno colto la dimensione di amore primario in cui si vive e le difficoltà pratiche che vedremo a parlare di peccato originale.

Oggi si parla molto di individualismo, di soggettivismo, ma in realtà si tratta di uno sgretolamento delle grandi tradizioni (cattolica, luterana, comunista…) in tante sette più piccole ma agguerrite, o in un belato comune da political correct, che a ben vedere si riempie di banalità, ma non è banale avere immagine tra gli uomini, e si passa sopra ogni contenuto pur di credersi all’altezza del consenso di ambiente. Di fatto non c’è soggettivismo o relativismo, ma frantumazione della Chiesa in tante “chiese”12. Questo è il vero problema del secolarismo, perché sono «chiese» misere di contenuti ma che comunque prendono il cuore, e pertanto la testa, finché c’è sufficiente successo. Si parla di libertinaggio, di libertà senza responsabilità, di libertà intesa solo come libertà di scelta che non deve subire proibizioni se non quando danneggia fortemente gli altri (ma ognuno vede a suo modo anche i danneggiamenti; si arriva ad approvare l’aborto nonostante sia l’uccisione di un figlio!), eppure non esiste il libertinaggio! La verità non interessa, bensì l’aver ragione, l’esercitare il potere che proviene da un’idea vincente espressa nel proprio recinto ermeneutico. Ugualmente è per la libertà: esiste la libertà di scelta, ma è fortemente condizionata dagli imperativi collettivi! Semmai la perniciosità del secolarismo dilagante sta nel fatto che illude di pensare liberamente, con la propria testa, di essere padrone delle proprie scelte, mentre basta poco per vedere che ognuno sceglie “liberamente” ciò che dà immagine nel proprio contesto sociale o nel political correct.

La libertà è sempre per l’amore, dritto o storto che sia. Il fatto è che quando uno opera per difendere il proprio potere davanti agli altri (davanti alle «persone essenziali», come qualcuno le ha chiamate), non bada a sacrifici e si sente libero di agire così (come una madre per le attenzioni verso un figlio ancor piccolo), ma in realtà la sua libertà è mossa dal bisogno di sentire forti vincoli! Vai a vedere bene e scoprirai che si cercano quei piaceri che sono permessi dal gruppo di riferimento. Il problema, ripeto, è che oggi i gruppi di riferimento sono molto frammentati. Se un adolescente non vuole andare più a messa, dirà ai genitori che lui è libero di fare quello che vuole, e si parlerà di libertinismo. Ma in realtà quel ragazzo è vittima di un gruppo di amici tra cui si rischia di essere presi in giro se si va a messa. Diventa un comportamento di gruppo, anche se mai dichiarato ufficialmente e neppure pensato dall’interessato; una “legge morale” a suo modo, del più bieco moralismo. E così in tutti gli altri casi: non esiste libertinismo o soggettivismo, se non come bandiera da sventolarsi presso altri che si identificano in prestazioni idolatriche diverse. Il problema è che ci si sente “liberi” quando si ha successo nel proprio ambito sociale e pertanto si arriva a credersi “liberi” nelle prestazioni che ottengono consenso nel gruppo, “liberi” nelle ferree leggi del gruppo primario, nel bene e nel male. Oggi innumerevoli giovani sono “liberi” di drogarsi, di ubriacarsi fino allo sballo, di svuotare l’amore in un uso improprio della sessualità, ecc. Altri sono “liberi” di suicidarsi ammazzando, come i kamikaze.

E così la cultura è un insieme di “chiese” portate avanti da chi ha successo. Quando chi ha successo finisce deluso, o tradito, o si ammala, il mondo lo scarica e va avanti con altri che hanno successo. In questo modo tante immagini di successo attirano a quell’area sociale altri ed è molto difficile far vedere gli esiti nefasti di tanti proclami, promesse di libertà, o miraggi di qualunque genere. Globalmente si può vedere che la gente non è contenta, o che dalla sessualità selvaggia ne deriva lo sfascio della famiglia, o il diffondersi delle malattie sociali, della violenza, della corruzione, della facilità di assoldare giovani alla deriva in qualunque impresa fuori dalla legalità, come prostituzione, droga o altro. Ad uno sguardo distaccato appare l’immensità della sofferenza che deriva dalla fragilità della famiglia. Eppure non si riesce a poterne parlare con oggettività: ogni rete primaria porta avanti decisa il proprio dogma e la propria morale corrotta alla ricerca di immagine e potere nel proprio interno. Quando arriva lo sfascio si cercano altri approdi in cui trovare qualcuno con cui ritrovarsi e sentire un po’ di consenso, anche se in modo banale o disperato. Pochissimi sanno ricredersi e riconoscere le ragioni stupende della Chiesa anche per il vivere umano e sociale.

Dio ci ha dotato di “senso comune” per capirci, basato sulla legge naturale. Il problema è che il bisogno di amore, di consenso in un gruppo primario riesce a forzare il senso comune fino a negare che esista una legge naturale comune a tutti gli uomini. La legge naturale poi risalta fuori in tanti modi, specie per giudicare gli altri, ma il filtro del consenso acceca al punto che si può negare la verità oggettiva anche nei suoi punti cardini e universali, del tipo che i bambini nascono dalla mamma! o che l’aborto sia un omicidio o che un bambino abbia bisogno di un padre e di una madre.

Il problema è particolarmente acuto con i giovani: ogni gruppo di coetanei crea la sua realtà chiusa, con tanto di «verità» e «morale». Finché hanno del successo nel loro gruppo primario non è facile che possano aprire gli occhi. È molto importante capire che il successo davanti al proprio contesto identitario dà la sensazione di libertà e di felicità. Noi diciamo che l’uomo si fa le grandi domande: da dove viene, dove va, qual è lo scopo della vita. Ma in realtà chi ha successo nel proprio ambiente significativo non si pone alcuna domanda. Pastoralmente si può constatare facilmente che con gente ancora giovane in ascesa professionale e sociale, se non sono già inseriti fortemente in una realtà ecclesiale, diventa difficile parlare loro di Dio e di Gesù Cristo: il cuore è già pienamente occupato. Più tardi la vita mostrerà i suoi limiti; il successo dipende troppo da circostanze e volontà altrui non sempre controllabili, ed allora si allenta il legame con la propria tribù e magari ritornano antichi legami cattolici del tempo del catechismo. Oggi questo tema si riesce appena ad intravedere per gli adolescenti, con le loro chiusure di branco, ma in realtà, sotto forme molto diverse, riguarda sempre tutti ed in ogni età. Solo così si spiegano tante convinzioni diverse, con cui non si riesce a ragionare, e magari alcune sono assurde, superficiali, criminali, eretiche13. Alla fine si raccoglie un pugno di mosche, non certo la felicità del cielo che in certa misura si può anticipare sulla terra per chi sa amare, e varrà la constatazione di J.L. Borges:«Ho commesso il peggiore dei peccati

che possa commettere un uomo. Non sono stato

felice… I miei mi generarono per il gioco

azzardoso e stupendo della vita,

per la terra, per l’acqua, l’aria, il fuoco.

Li frodai. Non fui felice. Realizzata

non fu la giovane loro volontà…».

Dopo quello che è stato detto occorre chiarire che non si giudica la persona; che non ci si sente superiori o migliori. Proprio perché ognuno, anche i cattolici (eccetto i santi), è mosso dalla stessa calamita del cuore. Proprio questa analisi porta a non distinguere i buoni dai cattivi, ma solo il bene oggettivo dal male, pur sapendo che ogni gruppo primario lo giudicherà diversamente. In gruppi perversi come il nazismo o i terroristi si possono ritrovare persone generosissime, martiri della loro causa, gente che crede di salvare il mondo. Il problema è proprio il rispettare le appartenenze altrui pur instaurando un dialogo che possa aprire gli occhi su ciò che è più umano e, naturalmente dovendosi difendere con tutti i mezzi da ideologie perverse a antidemocratiche.

Ma il cristiano saprà far risuonare sempre la propria testimonianza sulla bellezza del Vangelo, se preso in pienezza, senza sconti, sposato nell’amore. Pur che lo si viva insieme ad altri in una cammino di santità dove è possibile vivere il comandamento nuovo, la legge costituzionale del Regno. Il futuro è legato allo sviluppo di miriadi di nuclei di comunione primaria carismatica, in espansione. Non c’è altro orizzonte per il Vangelo.

1 La dicitura “gruppo primario” può essere intesa in modo riduttivo. Fa pensare a persone ben distinguibili anche esternamente, con segni distintivi o programmi dichiarati. A me interessa più l’aggettivo “primario” che non il sostantivo. Il legame in cui ci si muove può essere indicato con vari nomi, come dico nel testo, ma è importate distinguere la cerchia in cui ci si muove con l’aggettivo primario, visto che tutte le altre relazioni sono secondarie e pertanto molto meno influenti sulla sorte della vita. Difficilmente si giudica la realtà umana a partire dal profondo del cuore, bensì dalla ragione, dai sentimenti e dalla morale, senza accorgersi che il gruppo primario in cui si vive incide sulla ragione, sui sentimenti e anche sulla morale, pur non potendo togliere il bisogno di oggettività dei comandamenti morali.
2 Un piccolo ma significativo esempio ce lo dà Chesterton facendo dire a Padre Brown: «Nessun uomo può essere veramente buono finché non conosce la propria malvagità o quella che potrebbe avere: finché non ha esattamente compreso quale diritto abbia di esprimere tutti quei giudizi e questo disprezzo, e di parlare di “criminali” come fossero scimmie in una foresta lontana mille miglia». Ogni criminale agisce in una sua “chiesa”, di mafiosi, di terroristi, di nazisti o altro. E non pensa certo di essere nell’errore: ognuno difende la sua patria anche uccidendo il “nemico”. In questo senso non sono molto diversi dagli altri (non sono “scimmie in una foresta lontana mille miglia”), anche se si pone un grande problema di responsabilità sociale ed ecclesiale per preparare ai giovani ambienti e scelte in realtà più umane.
3 Un giorno Giuliano Ferrara rispose ad uno che gli chiedeva quando aveva lasciato il comunismo: “quando sono passato dal noi all’io”. In realtà un “noi” ce lo ha sempre, anche se si vede meno; come tutti è pronto a qualunque sacrificio per affermare la sua immagine davanti agli altri. Ma è vero che il comunismo era un “noi” asfissiante, contrario alla vera libertà. Nell’ambito di una appartenenza primaria ognuno crede di muoversi con piena libertà, ma quasi sempre sono leggi di gruppo, prestazioni necessarie per avere riconoscimento, potere, successo, dentro il gruppo. Oggi molti giovanissimi sono “liberissimi” di drogarsi, di far sesso senza regole, ecc. Solo nel dono divino dell’amore può emergere la libertà vera del singolo rispetto agli altri, che pur rimangono necessari nell’amore.
4 F.Alberoni ha studiato bene il fenomeno della statu nascenti, caratteristico di ogni gruppo ideologico o religioso nel suo sbocciare. Si può quasi dire che sia un parallelo dell’innamoramento nello sbocciare di un legame di amore umano, per la forza, l’esaltazione e anche l’accecamento che può provocare.
5 C’è da dire che anche la filosofia a ben vedere ha sempre un connotato religioso, non solo perché studia l’uomo nei suoi fini (sempre aperti all’assoluto), ma perché in genere viene a sostituire un credo religioso. Un filosofo si forma sulla base di qualche idea che promette successo e accoglienza presso altri. Di fatto il filosofo affermato diventa come una specie di fondatore di una nuova compagine religiosa: fedeli lettori, verità da lui proclamata, comportamenti coerenti con quella verità. Un’idea vincente ha tale portato di successo, di significato presso gli altri, che l’autore è pronto a dare la vita per le sue idee, come già successe a Socrate, e come è successo a tanti eretici che certamente non erano da condannare a morte ma che dimostrano come il potere sugli adepti della propria idea valga più della vita fisica. Questo conferma che la religione è molto importante per le sorti dell’umanità: assolutamente decisiva, anche se ha bisogno della redenzione e del dono soprannaturale per recuperare se stessa nell’unico disegno divino. Nel passato si è data troppo poca importanza alla teodicea, che va ben oltre le prove dell’esistenza di Dio e ai suoi nomi, unici contenuti dei trattati. La vita spirituale, di amore, sociale, di trascendenza, di arte, di educazione, di politica, di lavoro tutto ha a che fare con una ricca teodicea. Ma tutto questo che noi chiamiamo filosofia rientra nel tema della sapienza, che è la vera anima della religiosità umana.
6 Oltre a quanto citato sopra riguardo il tema della «religiosità» degli atei, posso riportare un testo di Ratzinger: «La patologia della religione è la malattia più pericolosa dello spirito umano. Essa si dà nelle religioni, ma esiste propriamente anche là dove la religione è respinta come tale e viene attribuito un ruolo assoluto a beni relativi: i sistemi ateistici dell’epoca moderna sono gli esempi più spaventosi di una passione religiosa alienata dalla sua essenza, il che significa comunque una malattia mortale dello spirito umano. Laddove Dio è negato, non si costruisce la libertà, ma le viene sottratto il suo fondamento e pertanto essa risulta stravolta», La via della fede, Ares 1996, p. 36. Non solo nazismo e comunismo rientrano perfettamente nelle parole di Ratzinger, ma anche ogni relativismo o scientismo o evoluzionismo ateo, fino al political correct oggi dilagante.
7 R, Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi, 1996, pp. 214 s.
8 Nel libro Liberare l’Amore esamino le condanne di Adamo ed Eva, piene di grande saggezza, che colpiscono il bisogno di amore e lo chiudono rispetto a Dio, ma su prestazioni diverse.
9 Nella Lettera rivolta ad Eugenio Scalfari, Papa Francesco smentisce la frase di Dostoevskij; ma non fa un esame approfondito del problema; si limita a constatare che gli atei hanno una morale. Ed effettivamente gli atei hanno sempre una morale, ma perché non sono atei, bensì idolatri. È fondamentale approfondire quest’aspetto e constatare che gli atei non pensano con la propria testa, se non in minima parte, come del resto quasi tutti (solo i santi vanno liberando la ragione alla ricerca della verità nell’amore). Anche gli atei hanno chiesa e dogmi cui attenersi, per ottenere immagine davanti agli altri. Come diceva Simone Weil: “Il sentimento sociale è un’imitazione perfetta della fede, il che è lo stesso che dire che è qualcosa di assolutamente fuorviante”. Spesso personaggi noti che vedono vacillare le loro credenze (si può proprio dire “credenze”) non arrivano a convertirsi in virtù dell’immagine sociale raggiunta con le loro precedenti convinzioni, immagine che perderebbero e il loro cuore glielo impedisce. Altri invece, ormai sul letto di morte, di fronte alla prospettiva di una condanna eterna, riescono a rompere il laccio del vincolo primario; successe anche a Voltaire, che chiedeva disperatamente un prete.
10 Oggi gli scenari sociali e globali sono in forte mutamento. Può sembrare che con la globalizzazione venga meno il problema del primato del potere nella propria tribù; ma non è per nulla vero. Il consenso identitario può assumere fisionomie diversissime, ma non molla mai. Occorre solo saperlo cogliere nel profondo del cuore umano e nella varietà delle innumerevoli reti sociali.
11 In un discorso ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, dedicata al tema delle «culture giovanili emergenti», Benedetto XVI diceva: «Il mondo dei giovani è una realtà, complessa e articolata, che non può più essere compresa all’interno di un universo culturale omogeneo, bensì in un orizzonte che può definirsi “multiverso”, determinato cioè da una pluralità di visioni, di prospettive, di strategie». «Non esiste una sola cultura dei giovani, piuttosto è opportuno parlare di “culture giovanili”, al plurale, atteso che gli elementi che distinguono e differenziano i fenomeni e gli ambiti culturali prevalgono su quelli, pur presenti, che invece li accomunano». Il nostro tema del gruppo primario dà ragione di questa osservazione.
12 Una tradizione culturalmente compatta può protrarsi anche per secoli. Gli egiziani hanno protratto la loro religione per quasi tre millenni. Per secoli i nostri contadini hanno vissuto una appartenenza primaria a livello di religiosità cristiana. Poi però l’unica tradizione cristiana primaria si è frantumata in tante “chiese” o tribù, o gruppi ideologici, fino ai nostri agnostici, razionalisti, relativisti, ecc., che tutto sono eccetto soggettivisti o libertinisti. Il problema del secolarismo è proprio dovuto al fatto che non ci si trova di fronte a gente che pensa liberamente, ma a gente che si ritrova a dover pensare in un gruppo primario che condiziona la ragione in funzione dell’immagine sociale e del potere interno al gruppo, accettando idee di moda in quell’area sociologica o ideologica.
13 Si leggono e si ascoltano commenti sul cristianesimo e sulla Chiesa che lasciano esterrefatti. Sembra proprio che non riescano a vedere al di là dei loro pregiudizi. Certamente le verità cristiane sono verità «calde», che col cuore «freddo» non si possono capire, come può essere la vera amicizia, o la musica di Mozart. Certamente se un pigmeo col suo tamburo, nella selva africana, scopre uno spartito di Mozart con quei geroglifici inesplicabili, lo userà come carta straccia. Dopo duemila anni di cristianesimo la cultura imperante vede la Chiesa come quel pigmeo vede uno spartito di Mozart. Il paradigma ridottissimo impedisce di aprire gli occhi sulle verità calde.