ABSTRACT
The problem around the ultimate aim has always been seen in view of the gratuity of grace
at abstract levels. We are much more interested in penetrating humanity in its thickness, freedom
and responsibility, in its civil, cultural, artistic foundation. Who will tell the Christian that he has a
strong duty to others, in the present and in the historical projection, about natural, civil, etc. goods,
and not only for evangelization and eschatological salvation? It is the theme of healthy secularity; A
laicity that does not fall into secularity (which is the other face of supernaturalist fideism) or
confessionalism.
Nowadays it is very good to hear about the apostolate carried out by lay people,
evangelization starting from social life, but it will not bear fruit if it does not regain cultural
strength, humanity, honest secularity. It is easy to remain within the definition of lay as Christian,
since he is concerned about promoting Christ, neglecting the Christian as a layman, who has a
native task of authentically living human values in the midst of history, society, family, etc..
One thing is evangelization, and another is wisdom and civil coexistence. It is by no means
easy to be immersed in the world without the temptation to escape or compromise. Much more
awareness of human dignity, which is well matched with the theme of holiness, is needed. We are
interested in the theme of the transcendent dynamism of human nature to give more consistency to
the Christian as a man and to his cultural production, for the good of the world, in close connection
with the eternal salvation of every person.
There are those who reduce the alternative to secularity or Christocentrism. Having to deal
with sin, we are not far from reality, so to speak. However, it is like saying that only exist the selfish
friendship or the supernatural charity. In fact, it is possible to identify the space of a noble but not
supernatural friendship. Such analogy is extended to all the themes of wisdom, in which there are
the contents of secularity and the cultural task are.
After the Second Vatican Council, the Church has soon abandoned to the legacy of laymen to move
on to the definition of a layman as a Christian, with a vocation to holiness and ecclesial mission.
Such vocation to holiness is relevant as it raises the lay person as a Christian, and to the full dignity
and responsibility within the Church, but does not recognize a positive notion of the Christian as a
layman compared to priests and religious.
From “Laicità e Cristianesimo”:

Oblio della laicità

Abbiamo detto che difficilmente si trova un sacerdote che sappia aiutare gli uomini a risolvere problemi culturali legati all’’agire morale. Ma il problema drammatico è che sono i laici cattolici a rimanere in massima parte passivi. Uno dei problemi di fondo che desidero toccare in questo lavoro è proprio quella del concetto di laicità. La problematica intorno al fine ultimo è sempre stata vista in considerazione della gratuità della grazia e a livelli piuttosto astratti. A noi interessa assai più per penetrare l’’umanità nel suo spessore, nella libertà e nella responsabilità storica dell’’uomo, nella sua costituzione civile, culturale, artistica. Chi dirà al cristiano che come uomo ha dei doveri forti verso gli altri, nel presente e nella proiezione storica, riguardo i beni naturali, civili, ecc., e non solo per l’’evangelizzazione e per la salvezza escatologica? È il tema di una sana laicità; una laicità che non cada nel secolarismo (che è l’’altra faccia del fideismo soprannaturalistico) o nel confessionalismo. Va molto bene quanto si sente dire oggi sull’’apostolato dei laici, sull’’evangelizzazione a partire dal vissuto sociale, ma non darà frutti se non si recupera forza culturale, umanità, laicità schietta. Siamo sempreÈ facile rimanere nella definizione di laico in quanto cristiano, in quanto si preoccupa di far conoscere Cristo, trascurando il cristiano come laico, che ha un il compito nativo di vivere autenticamente i valori umani nel mezzo della storia, della società, della famiglia, ecc. Una cosa è l’’evangelizzazione e un’’altra è la sapienza e la convivenza civile. Non è per nulla facile essere immersi nel mondo senza tentazioni di fuga o di compromissione. Occorre molta più consapevolezza della dignità umana, che si unisce bene al tema della santità. A noi interessa il tema del dinamismo trascendente della natura umana per dare più consistenza al cristiano come uomo e alla sua produzione culturale, per il bene del mondo, in stretta connessione con la salvezza eterna di ogni persona. C’’è chi riduce l’’alternativa al laicismo o al cristocentrismo. Avendo a che fare con il peccato non siamo lontani dalla realtà, al dir così. Però è come dire che esiste solo o l’’amicizia interessata ed egoistica da una parte e dall’’altra solo la carità soprannaturale. Di fatto si individua bene lo spazio di un’’amicizia nobile ma non ancora soprannaturale. Estesa a tutti i temi della sapienza, abbiamo i contenuti della laicità e del compito culturale. Abbiamo scelto il titolo “Laicità e cristianesimo” per indicare quanto sia urgente la presa di coscienza della responsabilità laicale dei cristiani. Ci si è ingarbugliati talmente sul tema della “natura pura” che non si sa più riconoscere i valori naturali presenti sempre e ovunque1. Se si toglie il contesto di amicizia in cui può fiorire la carità, si rende impossibile anche questa, come a togliere l’’alcohl dal coktail2.Si può dire che l’’amicizia sta alla laicità come la carità fraterna del comandamento nuovo sta alla Redenzione e alla salvezzaEstesa a tutti i temi della sapienza, abbiamo i contenuti della laicità e del compito culturale.

Il laicismo è spesso nemico dell’’uomo, della democrazia, della società, della famiglia. Ma non lo si può combattere direttamente, andando contro i suoi sostenitori. Costoro sono persone, spesso di buona volontà, che hanno visto tante arretratezze, tanta superficialità, tanti interessi nascosti dietro le culture imperanti e anche dietro l’’operato di tanti cristiani. Tra di loro si è creata una rete significativa, una “chiesa segreta”, che sostiene il senso della loro esistenza fin che arride loro personalmente qualche tipo di successo. Non è possibile pensare di contrapporre argomenti ad argomenti: non c’’è peggior sordo di chi non vuol sentire, e ciascuno “sente” solo ciò che offre più potere all’’interno della propria area di consenso. Nessun illuminista (come tutti gli altri) pensa solo con la sua ragione! Occorre far cultura con loro, in dialogo non irenistico, senza falsi inutili meaculpismi, ma neppure in polemica. Occorre confrontarsi sui problemi, facendo cultura reale, dando soluzioni più valide. Ma prima occorre porre il problema “culturale” del gruppo primario in cui tutti si muovono, con valenze religiose anche se si tratta di atei. Dopodiché sarà possibile dialogare rispettando le appartenenze degli altri, come abbiamo imparato a fare con l’’ecumenismo e con il dialogo tra le religioni.

Occorre pertanto individuare bene il compito dei laici nella Chiesa e nel mondo, approfondendo il tema del laicato cattolico, affrontato dal Concilio Vaticano II e da un Sinodo, ma ancora lontano dall’’aver maturato frutti consistenti. È proprio sul concetto di laicità dove occorre capirsi meglio. In questo momento c’’è quasi un consenso universale sul fatto che il laico in quanto cristiano si definisce per la vocazione e la missione nella Chiesa, che lo affiancano al clero e ai religiosi nell’’unico compito evangelizzatore. Come cristiano ciò è vero. Ciò significa, però, che si rinuncia ad una definizione positiva del laico; il laico si definisce solo in quanto non è chierico o consacrato nella vita dei religiosi. In questo modo, dietro queste affermazioni, rimane del tutto scoperto il compito del cristiano in quanto laico. Si getta nell’’oblio il compito primigenio affidato da Dio all’’uomo: di governare la terra; compito che distingue in modo positivo il laico dal sacerdote. Il compito è divino, nel senso che non è soltanto il bisogno di lavorare per mangiare, ma di essere mediatori della gratuità divina, del dono. Generare, educare, abbellire il mondo, umanizzarlo, civilizzarlo, mantiene la possibilità della gratuità. Il peccato la insidia fortemente, ma non ne toglie la possibilità e l’’urgenza. Oggi è in grave decadenza proprio la gratuità.

L’’assioma quasi universale, tra i cattolici, ora è che il laico è il cristiano. Per noi questo crea un vuoto tragico nell’’assunzione delle responsabilità umani, sociali, civili, dei cristiani in quanto uomini tra gli uomini, cittadini di prima qualità, responsabili di sanare i tanti aspetti della vita umana di cui l’’elenco sopra fatto dà degli esempi molto urgenti, con uno spessore di civiltà che comunque ci avvolge. Al laico cristiano oggi si dice di sentirsi responsabile della Chiesa, di acculturare la fede, partendo dalla fede e cercando di illuminare con la fede i problemi umani. Da questa parte si arriva al neomonachesimo: laici, consacrati o meno, che vivono nel mondo ma con la mente e il cuore per le cose di Dio, dove il mondo è solo palcoscenico in cui vivere la vocazione alla santità e all’’evangelizzazione. Diverso è il laico da cui ci si attende che risani da solo o con altri una piccola porzione dei valori umani (che sono anche divini, ma non necessariamente soprannaturali), impegnato a risolvere laicalmente i problemi in cui si imbatte, senza perdere la dimensione di fede e di evangelizzazione. Qualcuno di questi problemi, ultimamente, è portato al dibattito dei teologi o in qualche convegno dove accedono anche laici specialisti dei vari rami della cultura, ma rimane inatteso il compito del cristiano come laico, nella responsabilità quotidiana di sanare il mondo, di vedere i propri impegni come fatto di responsabilità culturale e non soltanto morale o ecclesiale. Ci aiuterà il clima di fede, ma il tema è naturale, e rimane naturale proprio nel suo rapportarsi a Dio e all’’immagine divina di ogni uomo. La laicità è sostanziata dalla verità metafisica e dall’’amicizia. Questa supera ogni barriera o recinto etnico e confessionale. Quando è autentica sa cercare il vero bene di ogni persona che si avvicini. Ma non è facile trovare laici cristiani che coltivino coscientemente l’’autenticità dell’’amicizia, sulla base di verità naturali universali.

Conosco laici impegnati spiritualmente, ma fagocitati ferocemente dalle esigenze professionali, che finiscono per perdere l’’unità di vita, in quanto concepiscono la loro missione in termini di apostolato e di preghiera o di costruzione della comunità cristiana e non in senso laicale, di risanamento del mondo in quanto lo vivono e convivono con tanti altri immersi nelle contraddizioni della cultura, tra cui i tempi atroci di lavoro. Questo compito nativo è divino come l’’altro e rende il laico cristiano vero protagonista dei disegni divini. Non basta parlare della santificazione del lavoro, perché questa riguarda sempre la vocazione e missione. Occorre saper distinguere il compito laicale (compito divino!) dal disegno divino di santificazione, che naturalmente nel disegno divinoin Dio si danno perfettamente sposati. Se ad un laico impegnato per più di dieci ore al giorno nel lavoro professionale, in una società che tende sempre più a rubare il tempo di ogni dipendente per risparmiare il personale e vincere l’’atroce concorrenza indotta dalla globalità economica, gli si dice che il suo essere laico vuol dire occuparsi della propria santità e della missionarietà ecclesiale, in unione con il clero e i religiosi, rispetto a questi si sentirà menomato dalle sue incombenze professionali, familiari e anche ludiche, per riposare un po’’. Si sentirebbe valorizzato nella Chiesa solo per un po’’ di esempio che può offrire sul lavoro e qualche parola costruttiva o anche di fede, se è sufficientemente disinvolto e fervente. Di fatto, il discorso sul laicato finisce per rivolgersi soltanto ad alcuni laici che si dedicano ad un lavoro in contatto diretto con l’’apostolato e la cura pastorale. Ma se i laici cattolici venissero a sapere che proprio i loro problemi di lavoro, di tempo, di prevalere degli interessi economici, di famiglia, di tempo libero e festa, di collaborazione professionale, di risvolti sindacali e politici, richiedono la loro responsabilità cristiana in quanto sono laici, in quanto Dio affida loro il compito culturale (che comprende il sociale, l’’economico, il politico, il ludico, l’’arte, ecc., ecc.) che permette di riportare le realtà create a Dio, allora il discorso del laicato cambierebbe completamente. Se il compito culturale è proprio dei laici, a monte occorre una consapevolezza teologica e anche pastorale che susciti e sostenga la preparazione e la responsabilità autonoma dei laici. Occorre capire dall’’alto della Chiesa il dinamismo ultimo naturale che permette di dire a ciascuno: a te tocca sanare la tua particella di mondo, da solo o con altri, a vari livelli, ma sempre individuando nel cuore dell’’evangelizzazione il compito laicale, la sanatio culturae. La propria particella non si chiude su se stessa, perché ogni problema familiare o di lavoro si apre sempre a dimensioni sociali, politiche, culturali. Il sacerdote secolare, in modo particolare, deve sentirsi a servizio dei laici, aiutandoli a santificarsi nel lavoro di tutti i giorni, nella famiglia, nella festa, ma sapendo che ciò non sarà mai autentico se non crescono a statura veramente umana, responsabilei della storia. Il sacerdote secolare non è tenuto a risolvere i problemi della secolarità, ma a sentirsi a servizio di laici responsabili della secolarità, pur dovendo in primo luogo favorire in essi la coscienza di essere “chiesa” ovunque sono, con missione evangelizzatrice. Ma non potrà essere efficace se non è anche lui esperto di umanità.

Il Concilio Vaticano IIha promosso il laico a pieno titolo nella Chiesa, in virtù del battesimo. Nel testi conciliare la laicità è connotata dall’’indole secolare che rende il laico cristiano responsabile di riportare le realtà create a Dio (come laici) e di evangelizzare in mezzo al mondo (come cristiani). E non si venga a dire che ciò implica una dicotomia esistenziale. Poi però le acque si sono confuse. Molti hanno insistito sull’’indole secolare in contrapposizione ad ogni clericalizzazione non solo del laicato ma anche della Chiesa. Soprattutto in America Latina si è corso il rischio di ignorare la chiara insistenza del Concilio sull’’identità cristiana del laico. In Italia e variamente nel mondo c’’è stata la tendenza opposta, che sottovaluta la dimensione secolare del laico e la sua presenza evangelizzatrice nelle realtà terrene per privilegiare la partecipazione alla comunità ecclesiale mediante una più articolata teologia dei ministeri. Fa notare A. Scola: “La necessità del superamento dell’’impostazione di timbro dualista si concentra soprattutto sulla tesi della Chiesa tutta ministeriale in cui anche i laici trovano una nuova collocazione. Negli ultimi tempi l’’ardore per la teologia dei ministeri sembra essersi abbastanza placato, anche perché si è rivelata l’’impossibilità di cercare una risposta al problema dello specifico del laico nella teologia dei ministeri”3. La VII Assemblea sinodale, come traspare nellaChristifideles laici privilegia l’’aspetto missionario del laico; il laico viene visto come il cristiano comune, cosciente della sua appartenenza alla Chiesa, che prende coscienza della missione ecclesiale. Il binomio vocazione-missione vuol ridefinire la figura del laico nella Chiesa e nel mondo.

A noi sembra che tutte questi tentativi di qualificare il laicato all’’interno della Chiesa lascino troppo nell’’ombra proprio il significato di laicità. Il laico cristiano giustamente deve essere compreso nella sua pienezza cristiana, vocazionale e missionaria, ma innanzitutto dobbiamo capirci sul termine “laico”, che per noi è decisivo per comprendere la responsabilità dei cristiani nella cultura.

Rispetto a questi problemi la posizione di coloro che ammettono sì una qualche autonomia della ragione e delle realtà terrene, ma confuse nell’’unica trascendenza soprannaturale, non ci sembra sufficiente. Consapevoli che siamo su di un terreno che permette varie prospettive, per chiarire meglio la nostra proposta culturale possiamo confrontarci con la posizione preferita dai teologi di questi tempi, ben riassunta da Scola. Si parte dal cristocentrismo obiettivo che postula la predestinazione di tutti gli uomini alla salvezza in Cristo «e conseguentemente, l’’affermazione dell’’esistenza storico-effettuale di un unico fine soprannaturale per l’’uomo» (p. 60). Noi accettiamo perfettamente il cristocentrismo obiettivo, ma non ci sembra vero quel “conseguentemente”, come avremo modo di mostrare ampiamente. Certamente è vero a partire dal disegno di Dio, ma non ci sembra proprio sul piano storico in cui Dio esegue il suo disegno. Però da questa divergenza ne derivano conseguenze che si sembrano decisive per la definizione del laico e per i suoi compiti culturali. Scola ci tiene a distinguere la sua posizione da quella di Barth e in genere dei protestanti, salvando, perlomeno come dichiarazione di intenti, una ragione autonoma rispetto alla fede e una natura diversa dalla sopranatura: «All’’interno dell’’unico ordine soprannaturale vive la dimensione naturale, obiettivamente distinguibile da esso anche se inesistente allo stato puro»; «Ciò significa che natura e ragione devono conservare un senso preciso all’’interno del cristocentrismo obiettivo, pena l’’impensabilità dell’’incarnazione e della stessa fede» (p. 61). L’’unico grande problema riguarda lo statuto di tale natura e della ragione in mancanza -dichiarata- di una trascendenza naturale. Anche per noi la natura, con il suo fine trascendente, non si dà allo stato puro, né separabile dal fine ultimo soprannaturale nel disegno eterno di Dio, però una finalità ultima naturale deve esistere, altrimenti tale natura e la ragione stessa sarebbero conati attuati unicamente dalla grazia, senza un reale consistenza propria.

Il concetto di laicato è direttamente derivante da queste premesse. Dice Scola: «Se la natura, distinguibile ma non separabile dalla sopranatura, non è pensabile realizzantesi al di fuori della sopranatura, analogamente la ragione non esercita la sua autonomia al di fuori della fede e la storia non è separata, nella sua durata mondana, dalla historia salutis. Nulla sfugge in sostanza alla presa totalizzante dell’’essere cristiano, che non per questo assorbe fino a dissolverli i dati naturali. In quest’’ottica se la laicità, comunemente messa a tema come secolarità, è pensata come un valore aggiunto all’’essere cristiano, perché derivante da un concetto di creazione erroneamente presupposto alla historia salutis, risulta improponibile come idea teologica. È stata mantenuta dal Concilio come categoria sociologica proprio perché soltanto in tal modo può essere pensata. Essa non aggiunge nulla all’’essere cristiano semplicemente perché l’’essere cristiano, coerentemente pensato, già contiene i cosiddetti valori della secolarità. Ciò non significa cancellare con un colpo di spugna tutti i problemi pratici che normalmente stanno sotto la categoria della laicità o della secolarità. Essi sono di indubbio rilievo per definire la vocazione e quindi la missione del fedele (…) e mostrano che la secolarità non sta fuori o prima, ma dentro la categoria del cristiano. Se la laicità non è pensabile come valore aggiunto all’’essere cristiano, allora la cosiddetta “teologia del laicato”, che si è mossa per anni su questa strada, è ormai teoricamente parlando capitolo chiuso. È necessario ora costruire una teologia del cristiano, cioè della vocazione cristiana, per poi fondarne la missione» (p. 62). «Appare chiaro che il laico è il cristiano. La riprova di questo dato è da cercare nel fatto che nessuna categoria specifica, pensata in vista di dare un volto preciso e positivo allo stato laicale, può essere riferita in modo univoco, e quindi rigoroso, solo al laico. È noto come il Concilio stesso si sia sottratto a questa “impasse” relativizzando quasi sempre i pronunciamenti riferibili all’’indole secolare del laico e abbia finito per riproporre come più rigorosa, seguita in questo dal nuovo CIC, la definizione negativa (…). In ogni caso pare più coerente sul piano teologico e più efficace sul piano pratico parlare del cristiano (o del fedele) anziché inoltrarsi sulla strada, dall’’esito improbabile, della costruzione di un “positivo” dello stato laicale» (p. 64). Ci sentiamo di dissentire profondamente, naturalmente con tutta la cordialità di un confronto teologico sempre opportuno. Lo dovremmo fare con tanti altri teologi, pur validissimi. Siamo perfettamente d’’accordo sul disegno unico di Dio, che ci ha creati nel Verbo incarnato, ma occorre vedere come ha voluto realizzare il suo piano. Occorre capire che è un disegno di amore e come tale lo può attuare solo nella libertà dell’’uomo e nella sua gratuità, cose che rendono necessaria l’’articolazione natura-grazia.

Un’’espressione estrema in questo senso, pur su basi di grande senso comune e pertanto metafisiche, e con istanze pastorali sempre opportune a salvaguardare l’’unica salvezza in Cristo, viene dal Cardinale Giacomo Biffi: «Se tutte le cose nativamente sono quasi riflessi e risonanze del Signore Gesù, luce gioiosa e parola esauriente del Padre, allora appare chiaro come non si dia propriamente parlando nessuna “secolarità”: non c’’è creatura che, senza snaturarsi nella sua essenziale autenticità, possa essere percepita autonoma da Cristo e avulsa dal “disegno” soprannaturale che presiede a questo ordine di fatto esistente. Se il “Figlio diletto, nel quale abbiamo la redenzione”, come ci insegna la lettera ai Colossesi, è il “capo” e il “principio” non solo dell’’universo rinnovato ma anche e prima dell’’universo creato, allora è vano cercare dove stia di casa la “laicità”. Non ci sono uomini “laici”: ci sono purtroppo uomini inconsapevoli della loro originaria connessione e quindi in contrasto con la loro vera natura concreta. Non ci sono realtà “profane”: ci sono “realtà profanate”, cioè asservite e deturpate dal male, che aspirano con ogni fibra del loro essere (anche se non sempre con la loro coscienza) alla liberazione e alla riconsacrazione. (…) Che Gesù di Nazaret debba essere oggetto di imitazione anche sulla strada della croce da parte del cristiano, questo in sede morale e ascetica è risaputo. La nostra prospettiva però è ben più radicale: essa ci consente e ci impone di pensare al Salvatore crocifisso e risorto non solo come all’’”“Uomo più che uomo” voluto da Dio a riparazione e superamento della decadenza conseguente al peccato, ma anche come al “Primo uomo” nel quale tutti, a cominciare da Adamo, siamo stati vagheggiati. Il che dà all’’esemplarità di Cristo un fondamento ontologico e un’’indole metafisica, che -se non vediamo male- non sono ancora usciti dalla penombra dei sentimenti confusi per entrare pienamente e universalmente nella luce della consapevolezza teologica»4. Potrebbe sembrare che si parla della realtà di fatto, dopo il peccato originale e al di fuori di ogni sapienza naturale che la nostra cultura ha eliminato di fatto. Ma il discorso è ontologico; nell’’ontologia la perfezione è dell’’essere in atto. Pertanto si nega un atto creaturale diverso dall’’atto della filiazione divina. Come dire che “cristiani si nasce”, negando la dottrina tradizionale della Chiesa. La secolarità non si può dare, nella versione riportata da cui dissentiamo, ontologicamente; e così la laicità. O laicismo (immersione inconscia nel peccato) o cristocentrismo cosciente e pertanto biblico e soprannaturale. Come dire che c’’è soltanto il peccato e il soprannaturale, non esisterebbe la natura. Naturalmente si dirà che esiste, ma soltanto per i problemi funzionali della storia. Tra l’’altro ci sembra che si finisce per barattare lo specifico cristiano per l’’universalità razionale. Il soprannaturale e il naturale finirebbero per identificarsi!

Questa posizione non ritiene importante il dialogo con i non cristiani, credenti o meno. Si pone come testimonianza schietta, che certamente può attirare e favorire la conversione. È una istanza sempre valida quella di non annacquare la fede: «questo bambino è posto a salvezza e a perdizione di molti» è scritto nel Vangelo. Non si può scendere a compromessi sullo specifico cristiano. Però, se si toglie la laicità, il confronto diventa necessariamente contrasto, lotta: o ti converti o non capisci nulla5. Se ne fa una questione di fede, mentre a monte c’’è un primato della persona, c’’è un assoluto della persona, che caratterizza proprio i sentimenti di Gesù. Lui va in croce per l’’ultimo, per colui che è incapace di capirlo. Certo rimane fuori la vera finalità ultima di tutta la creazione, ma non si può dire che non capiscano nulla di umano. Già c’’è l’’Islam che assume esattamente una posizione antilaicale: tutto è sacro e chi non lo riconosce deve essere emarginato o anche eliminato. Il cattolico non deve sperperare il tesoro della fede in un dialogo irenistico; non deve togliere contenuti soprannaturali per l’’ecumenismo e tanto meno per il dialogo interreligioso; ma da sempre ha mostrato una sana tolleranza, proprio per la dottrina della creazione, che dà una valenza positiva ad ogni realtà creata, non ancora soprannaturale. Abbiamo sempre un sostrato comune; anche se non abbiamo molta mentalità laicale per farlo emergere senza perdere forza soprannaturale e senza pretendere che la ragione altrui funzioni con la nostra fede, essendo questa un dono gratuito. È sempre mancata questa “mentalità laicale”, che deve permettere ai cristiani di fare cultura, con efficacia anche evangelizzatrice (il laico cristiano non si deve dimenticare di essere cristiano al momento di affrontare laicalmente i problemi propri della civiltà), ma con capacità profondamente laicale che permette non solo di conoscere i problemi, ma di condividerli con tanti. È vero che al momento di fare politica o cultura in modo laicale, senza schieramenti confessionali, facilmente si può sbagliare. Occorre infatti una buona formazione che la Chiesa dovrebbe assicurare a tutti i fedeli che vogliano considerarsi come tali. E anche con la formazione è facile confondere l’’opinabile con il divino. Ci sono stati fallimenti secolaristici o ritirate in buon ordine. E si è pensato che non fosse una via agibile. Il problema era dovuto al fatto che mancava una consapevolezza filosofica sufficientemente corposa per affrontare la laicità. Oppure perché mancava la mentalità laicale che permette ai cristiani di sentirsi perfettamente laici, nel mondo degli uomini e non solo dei mandati per l’’evangelizzazione con infarinatura di laicità visto che un lavoro nel mondo in fine ce l’’hanno. Sempre più ci si chiude nella definizione di laico secondo la vocazione e la missione nella Chiesa e nel mondo. La laicità, come la secolarità, sarebbe solo un dato di partenza: stare nel mondo, ma non come compito divino originario. E così si favorisce oltre ogni dire il laicismo.

Occorre capire bene la novità di comportamento che Gesù ha portato agli uomini. Gesù è molto esplicito su di una differenziazione tra il suo compito messianico e i compiti nativi degli uomini davanti a Dio. Nessun fondatore di religioni ha mai separato come Gesù la vita pubblica, morale, giurisdizionale, culturale, la società civile, per dirla in una parola, dalla fede che chiede ai suoi discepoli. Tutte le religioni si ritrovano in un modo o nell’’altro a regolamentare anche la vita civile. Così è sempre stato per gli Ebrei. Di più ancora per Maometto e l’’Islam. Quando Gesù si rifiuta di giudicare una disputa per l’’eredità fa subito capire che anche quella dimensione è da vedersi in un quadro morale superiore al diritto, ma Lui si dichiara incompetente riguardo l’’esercizio del diritto. Ugualmente per il matrimonio: «Da principio non fu così» (Mt 19, 9): viene a dire con chiarezza che il matrimonio risponde ad un disegno di Dio, già conoscibile da loro, senza bisogno della sua rivelazione. Con la famosa risposta «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» non intende certo dire che Cesare può fare quello che vuole; come per il matrimonio, così per i rapporti di giustizia occorre sempre rifarsi alla coscienza e a Dio; ma sta parlando a degli ebrei, già immersi in una rivelazione divina, dove per Dio si intende il Dio che parla agli uomini e indica comportamenti. Per Gesù questo parlare di Dio, di cui Lui è la voce suprema, si distinguerà nettamente dalla rivelazione prima, insita nella Creazione, nello spirito umano dotato di coscienza e sensibilità morale. In Gesù diventa chiaro l’’orizzonte laicale, ben lungi da forme di laicismo, di indifferenza di qualunque gesto umano riguardo a Dio (è così che la finalizzazione a Dio è nella natura delle cose, ma in modo diverso da ciò che ci viene dato in Cristo risorto), mentre la confessione di fede viene innalzata al sdi sopra del solito miscuglio di sacro e profano presente in tutte le religioni. Rimane la sfera del sacro, come confessionalità che traduce storicamente la religiosità propria di ogni essere umano; la sfera del sacro è necessaria nelle sue forme liturgiche e sacramentali, è il vero cuore di ogni cultura. Nel cristianesimo rimane integra e purificata, ma a sostegno di una fede soprannaturale, come dono di grazia, ben diversa dal dono creaturale che assurge alla sua nitidezza e che Gesù non confonde con i contenuti nuovi di cui è apportatore. Emerge così la possibilità di una società civile di cui l’’uomo deve rispondere davanti a Dio, ma diversamente che in una confessione religiosa e ancor meno che nei contenuti della fede in Cristo operata in noi dallo Spirito Santo. Emerge la laicità.

È vero che al momento di fare politica o cultura in modo laicale, senza schieramenti confessionali, facilmente si può sbagliare. Occorre infatti una buona formazione che la Chiesa dovrebbe assicurare a tutti i fedeli che vogliano considerarsi come tali. E anche con la formazione è facile confondere l’opinabile con il divino. Ci sono stati cedimenti secolaristici o ritirate in buon ordine. E si è pensato che non fosse una via agibile. Il problema era dovuto al fatto che mancava una consapevolezza filosofica sufficientemente corposa per affrontare la laicità. Oppure perché mancava la mentalità laicale che permette ai cristiani di sentirsi perfettamente laici, nel mondo degli uomini e non solo dei mandati per l’evangelizzazione con infarinatura di laicità visto che un lavoro nel mondo in fine ce l’hanno.

Non c’’è dubbio che nel passato si insisteva su di un’’idea di salvezza tale da disprezzare spesso l’’umanesimo, la responsabilità e la ricchezza della vita nella storia. Giovanni Battista è nel Vangelo ma non è il Vangelo. In carne di peccato ci sarà sempre bisogno di un richiamo alla penitenza, alla sobrietà, alla conversione radicale. Ci sarà sempre bisogno di essere disposti anche a morire per Cristo, rinunciando a tutto ciò che si possiede (che però non vuol dire privarsi di tutto, ma essere disposti a farlo se Dio ce lo chiedesse). Il vero Vangelo è Gesù, che vive una umanità ricca di doni (basti pensare al buon gusto nel vestire, all’’apprezzamento della buona tavola, al concetto di donna, alla ricchezza della sua amicizia, al suo lavoro per anni, alle sue feste da giovane, all’’apprezzamento delle cose belle e di tutte le creature). Ci sarà sempre bisogno del Battista, del “contemptus mundi” proprio dei religiosi, dei monasteri, della clausura,. Mma occorre avere un concetto molto più pregnante della salvezza cristiana, che non è soltanto salvarsi l’’anima dall’’inferno o avere un premio in cielo per i nostri sforzi, bensì amore per Dio e per gli altri, che si esplica solo con una chiara responsabilità storica, a tutti i livelli. Non si può andare in cielo senza pensare alla salvezza degli altri, che è condizionata dalla cultura, dalla politica, dalla famiglia, ecc. Non basta parlare di Cristo, senza distinguere il Cristo prepasquale da quello risorto, come vedremo parlando di cristocentrismo. Non si può ignorare il mondo perché la Bibbia, la liturgia, il comandamento nuovo sono tali da appagare i migliori cristiani. Quante epoche storiche sono state influenzate da questo erroneo ubi maior minor cessat. Successe ai primi cristiani fino a Giustino; successe nel quattrocento con la crisi della scolastica; è successo abbondantemente negli ultimi decenni dell’’ultimo secolo. Dice Giovanni Paolo II: «L’’incontro con il Vangelo offriva una risposta così appagante alla questione, fino a quel momento ancora non risolta, circa il senso della vita, che la frequentazione dei filosofi appariva loro come una cosa lontana e, per alcuni casi, superata» (FR, n. 38).

Non si può abbandonare l’’uomo nei suoi problemi materiali ed esistenziali, altrimenti questi si convertono in idoli (purtroppo l’’uomo nella storia carica di assoluto, di valore di senso, le attività che lo vedono protagonista). Lo spiritualismo si autocondanna perché il mondo andrà avanti soffocando lo spirito. Amare il mondo, la nostra condizione storica, vuol dire amarlo dal di dentro; non solo evangelizzarlo. Non basta guardare il mondo da cristiani, occorre guardarlo da laici, proprio per non farlo cadere nel laicismo. Si finisce non per partire dall’’uomo ma dalla nostra idea (rivelata e redentrice, ma sempre idea) dell’’uomo visto dall’’osservatorio della fede. Se l’’uomo non si sente compreso, accompagnato, amato in se stesso, mai seguirà la luce di Cristo se non per la disperazione causata dal vuoto del mondo, ma ciò non basta: manca un minimo di autenticità, di ricerca sincera. Il segreto dell’’efficacia di Giovanni Paolo II consisteva nel dare la massima importanza alla persona concreta; non tanto al cristiano quanto all’’uomo, naturalmente avendo sempre presente Cristo come pienezza dell’umano e del cristiano. L’istanza di fondo di Papa Francesco è proprio questa. San Josemaría Escrivá diceva che per essere molto divini occorre essere molto umani. Gesù è perfectus Deus et perfectus homo; se non si riconosce la sua perfetta umanità (come successe ai primi gnostici e a tutte le gnosi seguenti), si finisce per trovare soluzioni intermedie anche per la sua divinità. Il Cardinale Ratzingerha potuto dire nelle aule del Sinodo sui Vescovi che «il problema centrale del nostro tempo è lo svuotamento della figura storica di Gesù, perché un Gesù impoverito non può essere l’’unico salvatore e mediatore, se viene sostituito con l’’idea dei “valori del regno” e diventa una speranza vuota». Il protestantesimo, svuotando l’’umanità, ha contribuito non poco al secolarismo e alla perdita della fede nel perfectus Deus. L’’umanità vera è molto consistente, perché in tutte le sue problematiche è intrisa di divino; ma non come una forza vitale e informe che trova luce solo nel soprannaturale come fosse un pezzo di marmo che prende forma significativa solo in una statua. L’’umanità ha già la sua configurazione autonoma dalla grazia, anche se in questa configurazione è presente la possibilità specifica per Dio di darci un dono inaudito e ineffabile. L’’autonomia naturale dell’’uomo è già una statua; con la grazia scopre che è destinata ad una reggia, il che spiega anche alcuni aspetti della statua che altrimenti rimarrebbero inespressi.

Un documento importante riguardo il presente tema può essere il testo congiunto tra cattolici e luterani Chiesa e giustificazione, del 1994. In quel documento ci si domanda sulle responsabilità dei cristiani rispetto al mondo e ai suoi problemi. Non si riesce a proporre una lettura comune del problema, per l’’immensa differenza insorta dopo la dottrina di Lutero sui due regni, ma si è ben certi che il problema riguarda tutti i cristiani e che l’’azione dei cristiani deve andare più in là dell’’intervento della Chiesa, più in là dei confini ecclesiastici: «i cristiani sono difensori di uno stretto rispetto della libertà di religione e di coscienza, si mobilitano con speciale zelo e integrità morale, in unione con tutti gli uomini di buona volontà, a favore di una conservazione e organizzazione autenticamente umana del mondo, e si pronunciano contro la discriminazione, l’’oppressione e l’’ingiustizia, contribuendo in questo modo a far percepire l’’amore e il perdono di Dio che è stato dato loro» (n. 279). Come valutare questa azione dei cristiani nel mondo? Agiscono da cristiani o da uomini resi retti in modo particolare dalla fede? Come di fatto incidono nel mondo? Quest’’ultima domanda è cruciale. Si può incidere ricordando il Vangelo, certo, ma non si tocca l’’essenziale della responsabilità nel mondo. Il laico come cristiano aiuterà sempre il mondo a diffidare da assolutismi idolatrici, da chiusure secolaristiche, da speranze illusorie di piena felicità terrena. Ma non ci sarà da individuare molto meglio l’’azione dei cristiani come laici? Il documento mette in luce chiaramente che i luterani stessi si spingono oltre Lutero, preoccupati di sottolineare l’’autonomia dell’’ordine temporale e la razionalità dell’’azione politica. Il regime temporale, si dice, non può contare sulla conversione dei cittadini, ma può richiamare la coscienza, e cioè la ragione, con mezzi che «possono e devono reclamare universalità» (n. 267) ed essere pertanto idonei per la convivenza di tutti gli uomini. E si aggiunge: «Si chiarisce in questo modo che la conservazione e la configurazione del mondo, anche nel suo stato provvisorio dominato dal male, sono sottomesse alla volontà di Dio, ma secondo criteri che non sono specificamente cristiani ed evidenti per i soli credenti, bensì criteri per i quali si deve reclamare universalità. In questo modo la dottrina dei due regimi permette di accettare una autonomia rispetto al Vangelo per l’’azione politico-sociale e affermare il carattere secolare degli ordinamenti del mondo (…) i criteri etici sono fondati sulla volontà di Dio» (271).

Per la dottrina cattolica il documento riprende la dottrina della Gaudium et spes e afferma tra l’’altro: «Anche la dottrina cattolica riconosce i limiti dell’’azione ecclesiale, specialmente là dove riconosce la retta autonomia delle realtà terrene» (n. 272). Quel “retta” richiama un ordine divino, che, secondo noi si può sostenere solo se si riconosce il telos divino della natura umana. Giustamente si richiama la presenza della fede a lievitare la cultura con profondità nuove e con un senso critico che permette di individuare molto meglio le perversità sempre presenti nell’’azione umana: «con la fede diventa possibile la discussione critica delle tendenze distruttive della società, della politica, della economia e della cultura, così come il rafforzamento degli impulsi positivi di un’’etica secolare» (n. 273). Il documento si ferma qui. Non entra nei presupposti del problema. Della Gaudium et spes cita soltanto il n. 36 e i nn, 42-43. Non cita, come fa notare JL. Illanes, i nn. 12-16 e 34-35, che preparano il n. 36, e neppure i nn- 37-39 che lo completano6. Eppure sulle premesse di questa distinzione e sul modo di armonizzarle sino ad una profonda unità si giocherà il futuro dell’’umanità e del cristianesimo. Scrive Illanes: «Ci troviamo davanti ad un incrocio capitale della teologia del nostro tempo, sulla quale si sono pronunciati cristiani delle confessioni più diverse, tanto all’’inizio dell’’età moderna, quando la crisi della christianitas medievale propose il tema in forma nuova, come in anni recenti, nei quali i dibattiti intorno alla teologia politica e alla teologia della liberazione, per menzionare solo gli episodi più noti, sono stati particolarmente vivaci»7. Tutti tentativi, constatiamo, che hanno ignorato una metafisica rinnovata, aperta ben oltre le sostanze e le essenze, che si articola fino alla trascendenza del fine ultimo naturale, vera anima di una laicità non laicista.

Come non si trascura la medicina pur pensando al destino soprannaturale dell’’uomo, come non si trascura la cucina, i trasporti o tante altre dimensioni strumentali, più ancora non si deve trascurare l’’amicizia, la famiglia, il lavoro, la scuola, insieme alle cure mediche, agli ospedali, ecc. E come il corpo vuole cure, così l’’amicizia o la famiglia vogliono sapienza prima o insieme alle preghiere e ai sacramenti. E molta sapienza richiedono i complessi fenomeni culturali del nostro mondo.

La sapienza si recupera meglio con la grazia, ma ha un suo dinamismo spirituale (conoscenza e amore) che arriva a Dio. Il laico è colui che, nel clima sanante della grazia, recupera la dignità umana sommersa nell’’equivoco e nell’’egoismo profondo del peccato. Recupera il compito storico dell’’uomo, compito di civiltà, di solidarietà, compito di vita e di educazione. Scola teme un concetto di Creazione previo e avulso da Cristo, ma non è così. La laicità è dentro il disegno unico di Dio, ma potendo distinguere e dovendo distinguere, più più e e diversamente di quanto si distingue la potenza dall’’atto.

Nel disegno eterno di Dio, lo sposalizio trinitario prevede un compito autonomo, davanti a Dio ma diverso dal compito evangelizzante, un compito laicale, intriso di trascendenza naturale, nella finalità divina di ogni cosa. Non ci ha dato l’’intelletto solo per salvarci l’’anima nell’’al di là. Dio non ama l’’ignoranza delle possibilità create. Non ci ha fatto fragili per tenerci sottomessi o per metterci alla prova, ma per contare sulla nostra solidarietà e compassione. Non ha fatto il mondo a colori per dirci che l’’arte e il buon gusto non entrano nel suo disegno. Non ci ha dato un cuore per ridurre l’’amore e l’’amicizia a sentimenti puerili. E non si può pensare che questo compito storico di civiltà e di solidarietà, di responsabilità umana e divina sia, in quanto divino, già e soltanto soprannaturale. Ogni possibilità umana, ogni portato di civiltà, ogni crescita, è volontà di Dio ed è affidata all’’uomo. Non al cristiano in quanto cristiano, ma al cristiano in quanto laico, cioè a dire in quanto uomo. La laicità, come definizione positiva, è compito grave e urgente ed è ben diversa dalla evangelizzazione e dalla santificazione. Ed è compito, ripetiamo, tutto intriso di trascendenza naturale, di partecipazione di ogni essere all’’Essere; intriso di una responsabilità davanti a Dio che si sposa nella grazia al compito di collaborare alla salvezza. C’’è perfetta continuità tra laicità e fede, ma c’’è anche chiara distinzione. È decisivo per la fede e il destino eterno che la famiglia e tutti i valori umani siano vissuti secondo il disegno creaturale di Dio. Se non si fonda una sana laicità sull’’ontologia dell’’essere creato, si finisce o nel secolarismo o nel confessionalismo. E c’’è ancora troppo clericalismo tra i cristiani. Il neofideismo moderato, come mi sento di definirlo, toglie sostanza alla sanatio culturae, al compito secolare dei cristiani laici. C’’è un gigantesco bisogno di un discernimento culturale, che non può ridursi allo studio teorico, ma deve incarnarsi in una sana laicità.

Concretamente ci sembra che rimanere ad una definizione di laico soltanto negativa sia un enorme svuotamento di umanità e un brutto servizio fatto alla fede, che dovrebbe sostituirsi al forte dinamismo naturale, con il rischio di contrapporsi a coloro che non hanno fede, creando una incomprensione insanabile. Se è da definire il laico cristiano, perché togliere uno dei termini? Come cristiano non vi è dubbio che il laico si definisca proprio in funzione della vocazione alla santità e della missione evangelizzatrice, e qui non c’’è da insistere troppo sulle distinzioni di stati diversi nella ChiesaUn laico, un sacerdote, un religioso nel parlare di Cristo non sono molto diversi. Ma occorre anche definire il cristiano in quanto laico, e non solo al negativo. L’’etimologia greca non può risolvere il problema, perché i greci non potevano conoscere l’’autentica laicità. La vera laicità la può conoscere solo il cristiano, ma non perché essa si identifichi con il battesimo, bensì perché nel vissuto reale del cristiano che si santifica, che si districa un poco dalla idolatria del peccato originale, va prendendo luce la forza e la bellezza del dinamismo naturale, capace di immensi panorami, da quelli fisici a quelli sociali, a quelli artistici, a quelli scientifici, ecc.

Se Scola può dire che la secolarità non ha dato un riferimento specifico capace di definire il laico nella Chiesa, è perché si vede il mondo solo come oggetto di evangelizzazione. In questo compito è chiaro che laici, religiosi e sacerdoti sono uniti profondamente nel dinamismo vocazione-missione, di cui tutti partecipano. Ma in quanto laico il cristiano ha dei compiti nativi che lo distinguono profondamente dal sacerdote e dal religioso consacrato. C’’è molto da scoprire anche nella evangelizzazione propria del laico, che sempre sarà in unione profonda con il sacerdozio e lo stato religioso, ma con caratteristiche ben specifiche determinate dallo specifico laicale, qualora lo si scopra ben preciso nei grandi compiti culturali che Dio affida al cristiano nel mondo per riproporre continuamente quella “bontà” con cui ha creato il mondo e che non si può identificare con la bontà soprannaturale. Il peccato oscura quella “bontà”, in tutte le articolazioni create (libertà, persona, famiglia, società, religione, pace, economia, arte, ecc.), mettendo in causa la stessa identità umana, laicale. Il recupero della natura da sempre insito nel compito della grazia, ridà identità al laico come uomo, e non come cristiano! L’’identità del cristiano è data dal soprannaturale. Ci sembra opportuno ripeterlo e sottolinearlo: Laico non coincide con cristiano, ma con uomo. Uomo recuperato alla sua piena umanità. Uomo responsabile della sua umanità, con tutti i problemi di civiltà, politica e cultura che la storia inserra. Uomo responsabile del “giardino terrestre”, di dare nome a tutto; responsabile di doni immensi. E la civiltà deve rendere conto di una finalità ultima, nell’amore di Dio e degli uomini, in cui ha senso la libertà e la moralità, lo spirito umano e le relazioni interpersonali, l’’amore e la fecondità; l’’educazione, la pace, la giustizia, ecc.

È facile notare alcune confusioni sulla parola “mondo”. Nella Chiesa postconciliare il mondo era diventato tutto buono e la Chiesa doveva adeguarsi ad esso, accettarlo, farsi incontro. Naturalmente l’amore mette al primo osto ogni persona e si fa incontro a tutti, ma distinguendo nella parola “mondo” per lo meno tre significati differenti. C’è un testo brevissimo di san Giovanni che li indica tutti e tre: «Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe» (Gv 1,10). “Era nel mondo” indica il luogo degli uomini, in senso neutro, senza alcuna connotazione morale: un fatto. “Il mondo fu fatto per mezzo di lui”, indica l’originale bontà del mondo in quanto creato da Dio, come Padre, Verbo e Spirito Santo. Altrove Gesù può dire; «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito…» (Gv 3, 16). “Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola “mondo” esprime il grande baratro del male presente tra gli uomini, l’opposizione a Dio, sempre in lotta contro la misericordia salvifica divina. Gesù spesso mette in guardia i suoi discepoli per renderli consapevoli che si muovono in mezzo al male del mondo.

La laicità deve far emergere il mondo buono in quanto creato da Dio. Senza illudersi di fronte al male; riscattati dal male con la redenzione, ma potendo far emergere il vero mondo là dove intorno a noi il mondo secolarizzato vuole soffocare gli aneliti migliori degli uomini.

Si stanno diffondendo realtà carismatiche formate da laici, celibi o sposati, che si possono definire “neomonacali”, dove il “neo” indica che non ci si chiude nei monasteri, ma si rimane nel mondo, per evangelizzarlo dal di dentro. In realtà non è un vero “dal di dentro”, perché manca proprio il compito laicale. Sono realtà valide e benemerite, ma non rientrano in un discorso sulla laicità. In genere, se nel loro seno è possibile il celibato, si parla di consacrazione, come è successo per gli istituti secolari. Che pur partivano con un intento più secolare del neomonachesimo. San Josemaría Escrivá si è sentito costretto a lasciare il quadro degli istituti secolari proprio perché prevaleva la linea della consacrazione. Un laico può vivere nella fede e nella Chiesa il celibato senza perdere la sua schietta laicità, se il celibato si rifà al battesimo, alla filiazione divina più che ad una consacrazione che “sposa” con il sacro. Gesù, celibe, ha vissuto una schietta laicità in tutti gli anni della sua vita a Nazaret e il celibato legato al battesimo permette di vivere pienezza di fede e di amore soprannaturale (come per ogni battezzato) senza configurare diversamente dagli altri la propria laicità. Tra i primi cristiani ciò era molto diffuso; poi si iniziò a consacrare le vergini e nacque la dimensione della consacrazione non solo per i sacerdoti, in quella che è diventata la grande realtà degli ordini religiosi. Da notare che la Chiesa, che sceglie i sacerdoti tra coloro che hanno il dono del celibato, ha molto da scoprire del celibato non consacrato. Il celibato dei sacerdoti non viene dalla consacrazione, tanto è vero che i sacerdoti secolari non fanno voto di castità. La consacrazione viene dall’ordine sacro. Il celibato sacerdotale trova la sua scaturigine dal battesimo. Tra coloro che hanno il dono del celibato non consacrato la Chiesa sceglie i suoi sacerdoti. Il fatto che sia tornato nella Chiesa il celibato non consacrato per tanti laici che non diventano sacerdoti permette ai sacerdoti e a tutti di scoprire meglio la forza del battesimo che nell’incorporazione a Cristo esprime tutta la profondità del suo amore, tanto che si può vivere in mezzo al mondo, tra persone sposate, con un amore più grande che rende liberi in Cristo, sia i celibi che gli sposati, in virtù del battesimo.

È il Concilio che definisce ciò che è proprio dei laici: “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (L.G., n. 31). Non si può negare, come si fa, che qui ci sia implicita una definizione positiva del laico. Le parole della Lumen gentium si riferiscono innanzitutto a specificare la missione del laico in quanto cristiano, in quanto portatore della vocazione cristiana; tuttavia si indica un “proprio”, un modo specifico di evangelizzazione che si rifà allo specifico laicale di trattare le cose temporali e di ordinarle secondo Dio. Tutto sta nel capirci in questo “secondo Dio”. Per molti è sinonimo di Regno di Cristo; ma il Concilio non indica immediatamente il Regno come luogo di sanatoria delle realtà temporali. C’’è realmente l’’esigenza, urgentissima, di riportare l’’amicizia e la famiglia, lo spettacolo e l’’educazione, l’’economia e la giustizia, ecc., alla loro bellezza creata. E ciò è compito di cultura prima che di evangelizzazione; di collaborazione con gli uomini di buona volontà, prima che di apostolato. Inoltre si chiarisce che laicità non è laicismo, dove l’’autonomia del creato non è rivolta a Dio. L’’autonomia del creato non prescinde da Dio, proprio perché riportare a Dio significa ritrovare l’’immagine divina, la dignità divina di ogni vita umana, che non è ancora santità soprannaturale.

Solo cogliendo meglio lo specifico laicale si potrà illuminare l’’apporto evangelizzatore proprio del laico. Lo specifico del sacerdote è di ordine sacrale; lo specifico del consacrato è di ordine escatologico; lo specifico laicale è legato alla secolarità. C’’è molto da scoprire anche nella evangelizzazione propria del laico, che sempre sarà in unione profonda con il sacerdozio e lo stato religioso, ma con caratteristiche proprie, determinate dallo specifico laicale, qualora lo si scopra nell’’urgenza dei grandi e dei piccoli compiti culturali che Dio affida al cristiano nel mondo per riproporre continuamente quella “bontà” con cui ha creato il mondo e che non si può identificare con la bontà soprannaturale. , ecc.Sostanza dello specifico laicale è la sanatio culturae, il riportare a Dio le cose create, nel senso di ritrovare la “bontà” che caratterizza la creazione divina. Sanare la cultura non vuol dire soltanto recuperarla dall’’idolatria e dal peccato, ma favorirne la crescita propria di una natura spirituale, proiettata in una storia innovativa, capace di allargare sempre il bene delle persone e dei popoli. L’uomo redento ha un compito di civiltà.

Le parole del Concilio non sono sufficienti a cogliere tutto il portato della vera laicità. Si doveva approfondire. Ma fu fatto prevalentemente su basi antimetafisiche con quegli esiti secolaristici o soprannaturalistici che abbiamo visto. Per il termine secolarità, nella teologia postconciliare ci si è spesso accontentati di una banalizzazione che non ha saputo cogliere l’’analogia con cui il termine si applica ai laici e al clero secolare. Nella Chiesa si parla di sacerdoti secolari, di Istituti secolari, ma è chiaro che, trattandosi di persone consacrate, la loro secolarità non è certo omogenea con quella dei laici e pertanto, con quel concetto di secolarità, non si può certo intravedere il compito specifico dei laici, in quanto laici. C’’è un altro modo, decisivo, di intendere la secolarità, quella che è propria e particolare dei laici non consacrati, come è indicato nel testo conciliare citato. Una cosa è la secolarità originaria del laicato e un’’altra è la secolarità come relazione della Chiesa e dei cristiani rispetto al mondo (nel senso che i religiosi sono orientati all’’escatologia, mentre il clero secolare è orientato a servire Cristo nel mondo). In questa seconda versione il laico è visto in quanto cristiano e pertanto rimane in ombra il compito specifico dei laici in quanto laici e anche i laici si accontentano dell’’unico compito evangelizzatore. E invece, proprio al momento di evangelizzare, è molto importante rispettare i laici nella loro laicità. È ben diverso se un sacerdote vede i laici in quanto si uniscono nella comunità cristiana e lo aiutano nei suoi compiti pastorali (certamente anche di evangelizzazione), rispetto alla possibilità di sapere valutare il laico cristiano in quanto laico e sostenerlo nelle sue responsabilità civili, con una vita spirituale rispettosa della laicità, con le virtù proprie del lavoro, della collaborazione sociale, ecc., con l’’uso dell’’intelligenza a risolvere i tanti problemi confusi della cultura. Sono due modi diversi di concepire la collaborazione tra laico e sacerdote nell’’evangelizzazione. Il secondo caso presuppone che il sacerdote conosca bene lo specifico dei laici.

La grande inefficacia dei cattolici nella cultura in gran parte è dovuta alla clericalizzazione della Chiesa e del sacerdozio. Ma il problema è teologico e precisamente è il problema del rapporto tra grazia e natura. Si teme che la laicità rimanga come un valore aggiunto, fuori dal dinamismo soprannaturale, mentre è chiaro che è Dio stesso, nel suo unico disegno, a volere una certa autonomia della natura e della ragione. Un uomo può vivere in perfetta unità di vita (se si santifica) la sua fede, la sua famiglia, le amicizie, gli apostolati, il lavoro, gli interessi umani, l’’aiuto sociale, l’’aiuto ecclesiale, ecc. Basta che ogni piramide sia innestata in quella superiore. Il fine ultimo rimane uno, ma non necessariamente monistico. Si teme inoltre, dal punto di vista pastorale, una perdita di identità cristiana nel dialogare con il mondo; ma occorre dire che se si insiste solo sulle verità rivelate e sulla fede, nell’’integrità della testimonianza cristiana, è come dire che i problemi umani sono solo immanenti, favorendo in definitiva il secolarismo. Se c’’è “attesa” da parte dei pastori solo sull’’evangelizzazione capillare dei laici (che rimane ben sterile senza il supporto di un vero servizio laicale al mondo), il laico sentirà i problemi professionali e sociali come qualcosa di staccato; ma tali problemi hanno forte presa sul bisogno di consenso e dividono il cuore tra Chiesa e mondo; spesso fagocitano il cuore fino al secolarismo, all’’abbandono della pratica cristiana. Se invece il compito professionale e culturale sono “attesi” nel consenso ecclesiale, allora il cuore rimane unito e forte. I laici devono sentirsi responsabili di tutto il civile. Ma anche i sacerdoti devono saper vedere i laici in quanto vivono la loro fede nel mezzo dei compiti civili e dei problemi culturali. Se il laico vede una chiara attesa di tutti per l’’assunzione responsabile degli intrecci culturali (politici, professionali, ludici, ecc.) che attraversano la sua persona nell’’agire secolarmente, si andrà educando in tal senso e scoprirà compiti esaltanti, con responsabilità diretta, in prima persona. Diventerà adulto nella Chiesa e nel mondo8. Il sacerdote deve saper vedere il laico al suo posto e non solo per l’’apporto ecclesiale. Vederlo e sostenerlo; incoraggiandolo sempre. Là dove non vale l’’etichetta cattolica, dove la testimonianza cristiana non può essere mai disgiunta da una schietta e autonoma laicità, che è vissuto umano, competenza, moralità, creatività, amicizia, sensibilità umana verso tutti.

Un teologo attento alla laicità intesa in questo modo è P. Rodriguez. Dopo aver chiarito che occorre distinguere tra una secolarità generale, propria di tutta la Chiesa e una secolarità specifica e propria dei laici in quanto laici, scrive: «La gestione e l’’ordinamento delle cose temporali non appartiene alla Chiesa, né ai cristiani in quanto cristiani, bensì agli uomini in quanto uomini, al mondo in quanto mondo. Questo compito ha la sua natura propria –che i fedeli devono conoscere e rispettare (Lumen Gentium, 36/b)-, la quale include un dinamismo immanente a Dio, così come, storicamente, include un elenco di disordini frutto del peccato originale. Attraverso il carisma dei laici queste “realtà temporali” non mutano natura, non si trasferiscono, pertanto, alla “giurisdizione ecclesiastica”, bensì conservano la propria. Questo è ciò che la Gaudium et spes, 36 ha chiamato la “giusta autonomia delle realtà terrene” (…) Questa è senza dubbio la ragione per cui il Codice di Diritto Canonico –che ha operato una assimilazione formale di Lumen Gentium, 31 nel canone 225- dedichi così poco spazio a regolare il contenuto della vita del laici in quanto laico. Questo contenuto sorge dalla dinamica del mondo e lo regola –nella misura in cui gli compete, naturalmente- il diritto civile delle nazioni e non il diritto canonico. La stragrande maggioranza delle norme canoniche che riguardano i laici li attengono in quanto essi sono, innanzitutto, fedeli cristiani»9. Questo chiarimento antropologico gli permette di affrontare la natura teologica del laico, secondo il denominatore comune a tutti i cristiani, ma con un numeratore proprio che non bisogna dimenticare al momento di giudicare i modi di vivere il Vangelo e operare nell’’evangelizzazione.

Un piccolo esempio: oggi, ancora, se una madre ha un figlio sedicenne e capisce che quasi tutto si deciderà dal modo di far festa del figlio, va dal parroco a vedere se fanno qualcosa in parrocchia. Sarà un po’’ sempre così, ma è chiaro che c’’è un problema da risolversi con sana laicità; al parroco tocca la liturgia e la catechesi; il resto lo devono organizzare i laici con libertà e fantasia, ma anche con coerenza nei riguardi dei valori cristiani propri del giorno del Signore; e non è detto che lo debbano fare in parrocchia o in realtà ecclesiastiche. Direi che è un altro esempio di come occorre fomentare nei cristiani il senso della loro laicità.

L’’ordine naturale, pertanto, rimanda a Dio e non alla Chiesa in modo diretto; l’’autorità ecclesiastica non è autorizzata ad appropriarsi dell’’autonomia del temporale, pur dovendo aiutare tutti, dato il regime di confusione propria dell’’idolatria primordiale. Per questo il Concilio può dire: “Spetta alla loro coscienza (dei laici), già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena” (G.S., n. 43), con la precisazione della Congregazione per la dottrina della fede del 1986: “non spetta ai pastori della Chiesa intervenire direttamente nella costruzione della vita sociale. Questo compito rientra nella vocazione dei laici, che agiscono di propria iniziativa con i loro concittadini” (Libertatis conscientia, n. 80). Si salva così il pluralismo dell’’azione sociale senza cadere nel secolarismo che non sa leggere il divino nel mondo fino a giustificare, anche in campo cattolico, un pluralismo morale.

Laicità implica riconoscere un fondo di religiosità in tutti, distinta dalla confessionalità, che è pure di tutti, anche degli atei. È fondamentale capire che anche gli atei e gli agnostici hanno un loro vissuto religioso che crea una relazionalità confessionale, fonte di senso della vita e di consenso. Solo così si può impostare il tema della religiosità civile. Laicità vuol dire rispetto della libertà confessionale (se la confessione rispetta le altre confessioni) e della libertà civile; sapienza che è verità (legge naturale) e amicizia. Non c’è vera laicità senza un rapporto amicale di popolo. Infine ricerca comune di ciò che ci distingue come popolo, dei valori da trasmettere ai giovani con la scuola, il tempo libero, lo spettacolo, il lavoro. La democrazia non è solo libertà di pensiero e di voto, ma anche responsabilità di ciascuno rispetto al vivere comune.

Solo con la distinzione che il cristianesimo ha portato tra religione e fede, si è potuto iniziare il cammino verso la democrazia, con distinzione del civile dalla confessionalità. Se non si distingue religione da fede, la frase di Gesù sul dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare diventerebbe secolarismo: Cesare governerebbe secondo il suo potere. Ma Gesù sa bene che anche Cesare deve rendere conto a Dio, mentre il divino rivelato, il divino degli ebrei, da viversi nella fede soprannaturale, non si deve coinvolgere direttamente col governo politico, laicale. È la confessione ecclesiale che è separata da Cesare. La laicità richiede riconoscere la confessionalità degli atei o di qualunque partito o ideologia: rispetto delle persone e delle loro appartenenze. Pur che la confessionalità non sia dichiaratamente antidemocratica, totalitaria rispetto alle altre confessionalità. In questo caso tutte le confessionalità che si riconoscono appartenenti alla stessa società dovrebbero unirsi per eliminare il bubbone totalitario.

Laicità richiede educazione all’amicizia e approfondimento sulle verità naturali valide per tutti, pur sapendo che ogni confessionalità tende a torcere la verità naturale in qualche punto, secondo i limiti della propria ideologia, come dico altrove. Sapienza vuol dire verità nell’amore. La verità della legge naturale e l’amore dell’amicizia. Se non si distingue un amore naturale si finisce per rendere necessaria la fede per dare un legame di amore ad un popolo, che non è una accozzaglia.

Giovanni Paolo II aveva ben chiaro che sull’esistenza di alcuni valori non negoziabili si gioca il rapporto tra democrazia e tirannia. C’è un legame inscindibile tra democrazia e legge naturale. Ugualmente troviamo questa chiarezza in Benedetto XVI nell’Udienza ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 5-X-2007. E non è un tema di Magistero teologico, ma di sana filosofia. Lo si può vedere nel libro di M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, Mondadori, Milano 2008.

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LAICITÀ implica: religiosità in tutti, distinta dalla confessionalità, che è pure di tutti, anche degli atei. Rispetto della libertà confessionale (se la confessione rispetta le altre confessioni) e della libertà civile; sapienza che è verità (legge naturale) e amicizia. Non c’è vera laicità senza un rapporto amicale di popolo. Infine ricerca comune …

È FONDAMENTALE CAPIRE CHE ANCHE GLI ATEI E GLI AGNOSTICI HANNO UN LORO VISSUTO RELIGIOSO. SOLO COSÌ SI PUÒ IMPOSTARE IL TEMA DELLA RELIGIOSITÀ CIVILE …

È con l’’umano recuperato, con la laicità, che attireremo tanti al desiderio della salvezza, in Cristo. Se i laici cristiani, i giovani in modo speciale, non sono coinvolti in “attese” laicali, in compiti veri, concreti, quotidiani, aperti socialmente, ma secondo i talenti di ciascuno, prima o poi si accontentano del doppio binario, smorzando sempre più quello ecclesiale, e lasciando quello del lavoro o del mondo allo stato in cui si trova. Se tutto l’’impegno di un laico cristiano è nella vocazione alla santità e nella missione evangelizzatrice, il lavoro e il mondo saranno solo palcoscenico; attraente o faticoso, ma sempre capace di logorare la fede e l’’apostolato. Si arriva alla doppia vita e alla tiepidezza. Si spengono i sogni giovanili; chi persevera è mosso dal fatto che non ne può fare a meno. Se invece il laico sa che c’’è una “attesa” di tutti, dal Papa ai pastori, dai cristiani a tutti gli uomini, perché lui, da solo o con altri, con grandi organizzazioni o con l’’acutezza del suo ingegno, sappia risolvere i problemi umani in cui si trova di fatto immerso o verso cui si sente propenso, sapendo che ha un compito divino e una solidarietà umana, sapendo che è responsabilità nativa su cui conta Gesù Cristo, allora vivrà avventure umane e divine spettacolose. Dopo anni di lavoro, da parte di tanti laici meglio illuminati sul loro compito laicale, faticoso e ancora piuttosto nascosto, aumenterà il volano e si noterà nel mondo la bellezza di una civiltà veramente umana e ben sposabile con la fede. Più si noterà e più attirerà. Ci saranno opposizioni feroci, ma non come nello scontro tra “chiese” più o meno segrete, come tra “laici” e confessionali. Da parte “laicista” potrà sempre verificarsi la contrapposizione anche feroce di “chiese” in difesa del loro potere, ma sarà più facile convincerli che anche loro sono fondamentalisti e che è necessario rispettare le appartenenze di ciascuno. Ci sarà l’’attrazione del bello e del bene. Già si sono date “rivoluzioni” operate dal risveglio della “maggioranza silenziosa” (per esempio nelle Filippine con Cory Aquino, e più ancora in Polonia e Germania Est con la caduta del muro di Berlino). Il fenomeno è possibile e se si scatena è irresistibile. I giovani in particolare devono sentirsi protagonisti del bene. Fanno già molto in campo assistenziale; e perché non fare altrettanto anche in campo culturale, per studiare gli slogans imperanti a fianco dei loro compagni? O per la festa? O in altri campi sociali, preparandosi tra l’’altro ad un lavoro competente e coerente a servizio di tutti. I marxisti in Italia, puntando sulla cultura, hanno esercitato un fascino sui giovani, sostenuto da borse di studio e forte organizzazione. Ma non sarebbe bastato l’’incentivo economico se non ci fosse stata un’’attesa sui giovani capace di catturare loro il cuore. Il cristianesimo cattura assai più il cuore, ma occorre una attesa dei grandi sull’’impegno laicale dei giovani, altrimenti ci saranno risposte unicamente spiritualiste o assistenziali. Capendo la forza del consenso radicale, si può sognare su schiere di giovani che scelgono studi umanistici, o comunque capaci di inserire le loro scelte professionali in un compito laicale teso a sanare la cultura che circonda ogni professione. Bisogna dire che è quasi inesistente questa attesa di responsabilità laicale dei pastori e degli educatori cristiani sui giovani. Qualcuno potrebbe dire che lae Giornatea Mondialie della Gioventù hanno del 2000 ha ottenuto, in senso confessionale, ciò che qui si cerca di far intravedere in senso laicale. Certamente in un momento del mondo molto confuso, di caduta delle ideologie, di scetticismo generalizzato, la presenza di due milioni di giovani intorno al Papa, esercita una attrazione formidabile. A parte che ciò è sempre auspicabile come evangelizzazione, lascia anche intravedere altre possibilità, più laicali, di sfondamento culturale e sociale, verso una “civiltà cristiana”, intendendo questa non in senso confessionale, ma solo nel significato che certi valori filosofici, familiari e sociali sono maturati e possono maturare ancora in dialogo con la fede. In questo senso ne viene una società civile, laicale ma non laicista, di valori secolari ma che non si sarebbero avuti senza l’’apporto cristiano, che ben si potrebbe chiamare “società cristiana”, anche se i vari tentativi di usare questo nome non sono riusciti a superare l’’equivoco confessionale e l’’ostracismo secolaristico anche di certi credenti.

La vera laicità scatta quando ci si sente chiamati da Dio a riportare le realtà create al disegno interno alla creazione, l’’unico che può accogliere accordarsi ial Verbo che si incarna. Il laicismo si contrappone al Verbo, ma priama ancora alla vera umanità. Se il laico non evangelizza a partire dal suo compito nativo e specifico, da questo suo sentirsi responsabile di ciò che non è immediatamente soprannaturale, ma che sta molto a cuore a Dio oltre che agli uomini, la sua azione evangelizzatrice cadrà sempre nel clericalismo o nel confessionalismo, e rimarrà sterile rispetto alla salvezza del mondo. Ed è facile capire perché: se il laico si sente sollecitato soltanto in senso soprannaturale (che pur deve essere prevalente, ma non esclusivo) o finisce per trovare impegno ed interesse solo all’’interno della comunità di fede, prendendo i compiti profani come ingombranti necessità, oppure si dedica ad un’’opera di evangelizzazione in mezzo al mondo, ma senza un vero impegno a capire il mondo, i suoi valori, i suoi capovolgimenti nell’’inautenticità, e così il mondo idolatrico lo asfissierà, sia con le sue malie che riempiono di tanto irenismo molti cristiani, sia con le sue poderose concupiscenze, sia con le sue minacce, oppure lo rigetterà.

Nulla succederà finché i laici cristiani oltre ad essere “laici cristiani” (vocazione e missione nella Chiesa) non saranno anche “laici cristiani”, nell’’impegno di uomini rinnovati nella loro umanità, capaci di dare risposte culturali e soluzioni sociali ai problemi che sopra abbiamo elencati. Il cristiano è tale se si ritrova con il cuore pienamente messo nella Chiesa e nella chiesa locale, ma non è cristiano se non sa voler bene a tutti gli uomini e questo richiede la capacità laicale di vivere nel mondo e capire coloro che incontra, con i loro problemi. I pastori devono attendersi dai laici un apporto urgentissimo di tipo culturale e sociale, favorendo la loro mentalità laicale, la loro autonomia, pur aiutandoli sempre ad essere coerenti con la fede e non dimenticarsi mai di essere cristiani.

Non è per nulla facile stare immersi nel mondo e mantenere una tensione forte verso Dio e verso la Chiesa. Abbiamo già visto come occorra che i pastori e tutta la comunità cristiana abbiano una chiara attesa, personale e specifica riguardo il compito laicale, su ogni persona, in modo da ottenere un forte legame interiore al momento di muoversi tra le “sirene” e le ansie del mondo. Senza questa “attesa” è molto difficile per un laico muovere concretamente in mezzo al mondo10. Non basta neppure che ci sia una forte attesa della comunità sulla santificazione del lavoro. Occorre che sia accompagnata da una chiara attesa di laicità costruttiva. San Josemaría Escrivá disegnava panorami immensi di laicità e indicava a ciascuno il compito di far del bene per la società: «Il Signore vuole che tanto da soli, con l’’apostolato personale di ciascuno di voi, quanto insieme ad altre persone –forse lontane da Dio, o anche non cattoliche o non cristiane- elaboriate e traduciate in realtà, nel mondo, iniziative serene e attraenti, molteplici e diverse come il volto della terra e come i sentimenti e di desideri di coloro che vi abitano. Tali iniziative contribuiscono al bene spirituale e anche materiale della società (…) Per questo vi ho ripetuto tante volte che la vocazione professionale di ciascuno di noi è parte importante della vocazione divina» (Lettera, 11 marzo 1940). Già nel 1933 scriveva: «La preoccupazione santa di un cristiano comincia da ciò che è a sua portata, dalle occupazioni ordinarie quotidiane, e a poco a poco allarga la sua ansia in cerchi concentrici; in seno alla famiglia, nell’’ambiente di lavoro, nella società civile, nell’’ambiente universitario, nell’’assemblea politica, fra tutti i suoi concittadini quale che sia la loro condizione sociale; giunge sino alle relazioni tra i popoli, abbraccia nel suo amore razze, continenti, civiltà diversissime»; è chiaro che sta parlando al cristiano in quanto è laico e indica un compito laicale a 360 gradi. In un suo scritto del 1932 diceva a questo proposito: «Vi dirò qual è il mio grande desiderio: vorrei che nel catechismo della dottrina cristiana per i bambini, si insegnasse chiaramente quali sono i punti fermi in cui non si può cedere, quando si interviene in un modo o nell’’altro nella vita pubblica; e che, nello stesso tempo si affermasse il dovere di intervenire, di non astenersi, di prestare la propria collaborazione per servire, con lealtà e con libertà personale, il bene comune. Questo è il mio grande desiderio, perché vedo che così i cattolici apprenderebbero queste verità fin da bambini e saprebbero praticarle una volta diventati adulti»11

Oggi si può parlare di una disperata solitudine del laico cristiano nei propri problemi, pari all’’inefficacia dell’’azione laicale per aiutare gli uomini a vivere una umanità più valida. Basti pensare ai genitori cattolici di fronte ai figli adolescenti. A parte che avendo trascurato la cultura si riducono anche loro ad avere un solo figlio (in tanti casi), con tutto l’’aggravarsi del problema dell’’apertura adolescenziale nei figli unici rispetto ai figli di famiglie numerose, da chi si sentono aiutati al momento che la figlia vuole andare in discoteca? Certamente la grande soluzione è nei gruppi cattolici che aprono un cammino per tutta la vita. Ma la maggior parte di famiglie cattoliche che mandano i figli al catechismo se li ritrovano in discoteca già dai quattordici anni. Non è certo la musica a creare problemi, ma tutto l’’ambiente dei giovani che si isolano nel loro gruppo di coetanei, prendendo come assoluto ogni comportamento omologato al loro interno. Di qualunque tipo possa essere, positivo, negativo o perverso. Certamente sessualmente irresponsabile, perlomeno nella grande maggioranza dei casi. Come diceva F.S. Fitzgerald: «O si pensa o gli altri devono pensare per noi, e toglierci forza, pervertire e disciplinare i nostri gusti naturali, incivilirci, e sterilizzarci». Tale processo è già molto avanzato.

L’’uomo è sempre mosso dalla forza di un compito datogli da Dio nei riguardi degli altri. Se uno va nel mondo non solo con un compito di evangelizzazione, ma prima ancora di responsabilità divina del creato, si sentirà immerso in un’’avventura di cui lui è vero protagonista. Chiunque può dire una parola un poco più umana, più bella, più efficace, se sente la responsabilità di dare risposte umane più sapienti. Il laico cristiano è sempre centrato sulla sua missione di portare Cristo. Gesù Cristo è il salvatore, l’’uomo innocente, il vero futuro. Però attraverso la nostra umanità, con tutti i doni di cui è fornita! Quanto si è mortificata nei secoli questa umanità, pensando ad una salvezza individuale che vede questo mondo solo come palcoscenico della fede; così facendo si è ridotta la carità ad una virtù, mentre è lo scopo per cui stiamo sulla terra. Cristo incontra l’’uomo attraverso l’’umanità dei suoi discepoli, delle folle che lo circondano, dei capi che lo contestano. Il cristiano deve sempre incontrare l’’uomo concreto, in modo umano, diventando sempre più esperto di umanità. Da solo o con altri, cercherà di lenire non solo le piaghe fisiche (la storia della Chiesa in questo è meravigliosa), ma quelle ben più perniciose della cultura. Annuncerà Cristo appena può, anche immediatamente, con grande franchezza (parresia), ma dalla parte dell’’uomo, non dalla parte della Chiesa, non per una responsabilità missionaria, bensì per una reale carità che lo mette nei panni di colui che incontra; la Chiesa deve poi essere scelta liberamente e certamente sarà desiderata questa scelta se si intravvede dietro le nostre parole e il nostro esempio la presenza di una comunione primaria carismatica, che attiri il cuore sempre bisognoso di amore. La carità deve aiutarci a recuperare il primato della persona: è nella persona in comunione dove si incontrano in excelsis fede e sapienza. Solo il primato assoluto della persona che è il vertice della sapienza, può sposarsi con la redenzione. Pensiamo come è efficace anche per la fede, che tanti giovani si impegnino nel volontariato; ma c’’è pochissima sensibilità al volontariato della cultura, alla carità della verità umana. Se la cultura si deve fare a tre livelli, come abbiamo spiegato, tutti sono chiamati a fare qualcosa in questo campo, tanto e più di quanto il cristiano è chiamato a lenire le piaghe fisiche di chi incontra.

      1. Laicità, stato laico, legge naturale

Il tema della laicità è la necessaria premessa per intendersi sulla laicità dello stato e sul fondamento della democrazia. Temi continuamente in discussione, con soluzioni molto diverse lungo la storia e nel ventaglio degli stati esistenti; soluzioni che coinvolgono le sorti di innumerevoli persone, non sempre per il loro bene. Ben diversa, per esempio, è la laicità dello stato nella tradizione statunitense da quella ereditata dalla rivoluzione francese. La prima è sorta a difesa della libertà religiosa, da viversi nell’’ambito di leggi comuni. Nessuna ostilità contro la religione o le chiese; nessun disprezzo, ma imparzialità. Con la rivoluzione francese e negli stati che ad essa si ispirarono, abbiamo avuto, invece, un laicismo militante, in lotta dichiarata contro ogni forma religiosa, e non solo nelle loro forme esterne e pubbliche, ma con l’’intento di portarle a spegnimento nel cuore degli uomini. Quella era laicità come metodo, a difesa della società civile questa si ergeva a fine ultimo, con supremazia della politica sulla religione. Non si sono accorti (neppure oggi nessuno ci pensa) che si era caduti da una religione in un’’altra, con molti elementi di perversità.

Fa notare Mario Toso: «In Europa, la secolarizzazione dello stato, coincidente con una specie di sostanzializzazione di quest’’ultimo identificato con la Nazione, fu intesa come laicità-fine. In particolare la laicità dello stato francese -espressione di una volontà popolare assolutizzata, praticamente slegata dalla legge naturale oggettiva, impersonata dalla borghesia antimonarchica e anticattolica- si realizzò come supremazia onnicomprensiva del politico sul religioso»12. Tante soluzioni si sono date negli ultimi secoli: liberalismo illuministico, cattolici liberali, socialismo collettivista, .stati sociali costituzionali. Tutte soluzioni caparbiamente attestate sulla presunzione di negare ogni apertura al trascendente per ciò che è di pertinenza dello Stato, ogni problematica morale (con eccezione dei cattolici liberali). Le traumatiche esperienze di un laicismo militante sostenuto da ideologie disumane ha portato, dopo la seconda guerra mondiale, ad una maggior collaborazione tra stato e Chiesa, con riconoscimento delle rispettive autonomie, ma anche con necessità di collaborazione.

Correnti di personalismo sociale, già presenti nell’’elaborazione delle Costituzioni del dopoguerra, stanno hanno cercato di svilupparendo un concetto di laicità ben diverso da quello elaborato nel passato dal liberalismo, o dal marxismo, o anche dal razionalismo che li ha preceduti. Ci si va aprendoHanno sensibilizzato alla ricchezza della società civile, così mortificata sia dal liberalismo che dal socialismo. E ci si va aprendosi è cercato di aprirsi al confronto con la morale, con la legge morale naturale, con barlumi di apertura alla trascendenza anche da parte di una laicità di matrice storica anticristiana. Nel dopoguerra si è sempre più posto l’’accento sui diritti inalienabili degli uomini, e ciò richiama necessariamente il problema di una legge naturale. Scrive Toso: «Il concetto di laicità che è venuto maturando sino a noi implica relazione all’’etica e ai valori religiosi e non è rinserrabile entro schemi relativi ai soli rapporti tra Stato e Chiesa. Esso si riferisce anche ai rapporti che si debbono instaurare tra Stato e società civile, tanto più necessari dopo le esperienze negative di sistemi statali accentratori di sevizi sociali e culturali emarginanti la società civile. (…) Questo impegno riformatore dei rapporti Stato-società civile, congiunto anche all’’attuale sforzo di produrre una legislazione riguardanti questioni di grande rilievo per la qualità della vita dei cittadini -si pensi solo alla bioetica, all’’integrazione tra differenti culture, alle tutele contro eventuali abusi di sette, all’’insegnamento della religione- ci mostra come la nozione di laicità statale sinora sviluppatasi, e che si sta ancora plasmando, non è e non può essere concepita senza una dimensione e un’’opzione etiche. Affermare che essa è fatta di totale neutralità ed indifferenza nei confronti dei valori umani e del fatto religioso è semplicemente falso e fuorviante. Sarebbe porsi fuori dall’’attuale processo storico. Sarebbe negare che la democrazia ha un cuore, rappresentato da un nucleo non arbitrario, da una coscienza morale comune, in particolare, dai diritti dell’’uomo, che sono ritenuti (generalmente) inviolabili»13

In questa fase nuova dello stato laico, con un recupero di una problematica valoriale, si rendeva ancor più manifesto che l’’etica non può essere autonoma e fondarsi solo sulla ricerca umana, perché questa è condizionata da posizioni di potere, da idee che diventano “fede”, con profondi pregiudizi, capaci di andare contro l’’uomo più ancora della presunta neutralità valoriale dello stato laico. Ma oggi vediamo affiorare nel nugulo dei diritti civili delle rivendicazioni di diritti individuali che non sono in realtà diritti. Mai come nel nuovo millennio si è condotta una battaglia “liberatoria”, di salvezza, e pertanto cripticamente religiosa, rivendicando come diritto ciò che è disvalore. Eppure la maggioranza li vede come tali e ne vuole sempre più, in un’’orgia autodistruttiva che mai l’’umanità ha conosciuto. Divorzio, aborto (che rende necessariamente cinici), eutanasia, clonazioni, sperimentazioni genetiche su embrioni, affidamento di bambini a coppie omosessuali, fecondazione artificiale eterologa, utero in affitto, con un crescendo inarrestabile che distrugge la forza dei legami di amore, anche in chi è ben intenzionato, perché i legami di amore non dipendono solo da se stessi e perché l’’amore ha bisogno di una verità oggettiva, di un cammino percorribile da tutti e da sostenersi tra tutti.

Tali sono la confusione, il disagio, le sofferenze ingiustamente inflitte, che le menti più responsabili si pongono domande di tipo sapienziale. Solo che la mancanza di una metafisica valida condanna il laicismo ad annaspare nel vuoto, e i cristiani a giudicare come dall’’esterno, per barcollare su di una terra sempre più erosa. Eppure si gira intorno al problema del fondamento trascendente. Si è giunti a parlare di “religione civile”14, espressione che non piace né ai cattolici né ai “laici”. Eppure il problema si pone; addirittura si può dire che è cruciale per le sorti della democrazia15; questa infatti non può reggere solo sul principio del rispetto di tutte le scelte che non escano da un quadro democratico, ma ha bisogno di un altro principio: favorire i valori comuni che danno qualità di popolo all’’unione sociale. Altrimenti diventiamo una massa indifferente di individui, uniti solo da valori funzionali. Non bastano accordi pragmatici; occorre comunione di senso, un bene comune che non sia solo di fattispecie economica; c’’è bisogno di riconoscimento reciproco, di approfondimento continuo di ciò che favorisce la dignità umana, la serenità delle famiglie, l’’educazione dei giovani. Possibile che ad ogni votazione di leggi che riguardano problemi morali, come il divorzio16, l’’aborto o la fecondazione in vitro eterologa, il coro dei veterolaicisti sia sempre: in democrazia non si può imporre una legge morale a chi non la accetta; nessuno vi costringe ad abortire o ad usare la fecondazione eterologa, perché volete imporre agli altri i vostri imperativi religiosi? Di volta in volta si cerca di far ragionare sul diritto del nascituro o del coniuge o di altri; si dovrebbe considerare che con la pretesa che si voti secondo i loro desideri per non subire le nostre convinzioni, di fatto operano una grande violenza antidemocratica: il divorzio, l’’aborto, la fecondazione eterologa ricadrà anche sul coniuge, sui figli, sulle persone care di chi ha permesso il sopruso pseudodemocratico. Io non sono costretto a divorziare, ma per effetto di quella legge ci sono molte probabilità che mio figlio divorzi o che mia moglie mi lasci senza famiglia! E comunque si favorisce sempre più l’’anomia, la mancanza di qualcosa di consistente in cui un popolo può riconoscersi. Invece di migliorare secondo l’’apporto e il voto di persone più consapevoli si favorisce il regresso della civiltà. Nel mio voto sull’’aborto, per fare un esempio, io non penso a me, ma al bene di tutti, e non sarei un cittadino democratico responsabile se rinunciassi a ciò che penso di bene comune.

Nonostante queste e altre considerazioni piuttosto ovvie, non ho mai visto fare cultura a livello divulgativo proprio sul concetto di democrazia, sul suo spessore morale, di dignità umana, di valori nobili. Occorre mettere in luce l’’enorme azione divulgativa delle leggi su questi temi; sull’’indotto a macchia d’’olio che opera sui giovani. Si vuol credere che ognuno in realtà sceglie per come vuole, mentre è il legame sociale (il political correct è una vera rete sociale primaria, a sostegno della propria immagine sociale), che porta i singoli a credere di scegliere liberamente pur scegliendo secondo le attese dell’’ambiente che si frequenta. E comunque ha effetto su tante famiglie, indebolendole oltre ogni dire. Questo ha dimostrato la realtà. Ogni nostro gesto ha un’’influenza sulla società. Perciò occorre operare nella cultura e insistere sulla libertà di voto per il bene di tutti, anche per chi vota controcorrente. Occorre un forte invito a non essere indifferenti a ciò che porta bene o a ciò che porta male, il che a sua volta impegna in una ricerca culturale comune, proprio a livello di “religione civile”. L’’accusa suddetta dimostra un ritorno ad una laicismo d’’altri tempi, con pretese di neutralità assoluta in campo religioso e morale, spacciando questo come tolleranza per tutti. Ma ciò ha chiaramente dei limiti, sui quali si interrogano sempre più frequentemente i non credenti. Si va capendo che una società vera ha bisogno di lealtà, di fiducia reciproca, di fatti celebri da poter “celebrare” (con tutto il valore della festa), di sicurezza della giustizia e di una sua giusta amministrazione; di una autorità di servizio, dopo aver conosciuto tragici abusi dell’’autorità, ecc. Innumerevoli temi che sono di “religione civile”. Quando la lealtà vien meno fin dentro le famiglie, come succede a valanga oggigiorno, non si può più parlare di democrazia, ma di deriva del cinismo. Se il laicismo ha potuto vivere parassitariamente sui valori immensi portati dalla tradizione religiosa e dalla fede cristiana, oggi è riuscito ad assottigliare tanto le radici della vita democratica che proprio dall’’interno del laicismo sono sempre più numerosi gli appelli a superare il vuoto di una tolleranza assolutizzata17, del venir meno del senso della vita, del disfacimento dei legami forti, a trovare dei limiti per le applicazioni delle scoperte scientifiche18. In questa prospettiva è possibile aprire il tema della “religione civile”, pur che si abbia il coraggio di porre al centro la finalità divina della vita umana. E in questo senso i cattolici devono rielaborare tutto il tema del fine ultimo e dar spazio alla finalità ultima connaturale senza ricadere nelle secche del razionalismo scolastico Se i teologi diffondono con totale sicurezza che ogni discorso su Dio è di fede, il filosofo cristiano, il sociologo, il politico stesso, si dedicheranno a problemi funzionali o strumentali, senza porsi continuamente il tema della dignità divina di ogni uomo. Così si è favorito oltremodo il secolarismo.

L’’uomo, creato ad immagine e somiglianza divina, già nel suo spirito o nella sua anima, come si preferisca dire, ha una dignità sociale che la cultura, la politica, l’’arte, la scuola, devono avere ben presenti. Non si può portare Gesù Cristo in parlamento come vorrebbero cristiani confessionali, ma neppure si può lasciare Dio fuori dal parlamento, come vorrebbero cristiani secolaristici. Perché Dio è punto di riferimento anche per la cultura e la politica, per l’’insegnamento e per lo spettacolo, pur nella laicità propria di queste dimensioni. Troppi equivoci sono nati su queste distinzioni. Quanti cattolici si sono ritirati in scelte clericali perché non capivano che si può portare Dio in parlamento. Il cardinale Siri ha visto il secolarismo in Maritain, ma Maritain era un metafisico e pertanto non poteva essere secolarista; lo sono stati, sulla sua scia, tanti cristiani non metafisici.

Quando si dice Dio non si è già nella fede, ma nella cultura!19 Il grande portato della cultura greca è stato proprio quello di staccare il tema dell’’uomo, della società e di Dio dalla sacralità confessionale con i suoi riti e il suo culto. La filosofia greca era proprio un tentativo di religione civile: parlare di Dio da filosofi, da politici. Oggi si tratta di riscattare la religione civile dal dualismo della sapienza antica, che l’’ha portata all’’oblio, superando sia rigurgiti sacrali che la terribile caduta secolaristica in atto da noi in occidente. Il profano non è una profanazione del sacro, ma sapienza che accomuna tutti gli uomini, consapevole che ognuno però deve viverla in una realtà culturale forte, confessionale, religiosa, ma nel richiamo superiore alla universalità del portato sapienziale; tale deve essere la “religione civile”.

I 10 comandamento fanno parte della grande rivelazione di Dio a Mosè. Da una parte sono già nel cammino della fede, che si basa sulla rivelazione. Tuttavia si può dire che come contenuto riguardano valori morali comuni a tutti gli uomini. Gente come Cicerone, Confucio o Gandhi ne erano ben convinti. E non come prezzo da pagare per una vita eterna, ma come comportamento degno della vita umana. Il cuore può capire l’inganno del mito del peccatore gaudente. Prima che nell’aiuto della rivelazione sono scritti nella coscienza di ogni uomo e rendono possibile parlare di amore. Se non c’è un cammino comune, una meta comune, non si può parlare di amore. Si obietta che non tutti vivono secondo i 10 comandamenti, e non solo per egoismo e peccato. Effettivamente, lo abbiamo già visto ma verrà fuori ancora, il consenso in una appartenenza primaria riesce a forzare qualche comandamento, secondo una dogmatica ridotta o perversa che regge quel recinto ermeneutico. Ma se si capisce il condizionamento dell’amor incurvato prodotto dal peccato originale, risulta chiaro che i 10 comandamenti sono scritti nel genoma umano, sono le “istruzioni per l’uso” immesse da Dio nella creazione dell’uomo. Laicità vuol dire dieci comandamenti. I non credenti dovrebbero capire che è l’’unico modo di vivere bene sulla terra. Devono però capire anche che il gruppo primario deforma qualche comandamento, in modo intanto di accettarne vari e comunque poter dialogare sulla basa di una comune umanità.

La pratica religiosa è della confessionalità; la società civile deve lasciare libertà di confessione, ma non prescindere dalla dignità spirituale dei cittadini. La politica non risolverà problemi di culto o di catechesi, ma dovrà averli presenti per non ostacolarli indebitamente, e anche per favorirli. Lo stato non può sposare una confessione, ma deve aver presente la consistenza nel proprio territorio delle varie tradizioni. Può esigere norme di ordine generale, che escludono sette non rispettose della democrazia, ma deve favorire la coesione religiosa ed averla presente. In questo la tradizione statunitense è nettamente più avanti di quella europea. Probabilmente con alcune confessioni non sarebbe possibile una democrazia. La laicità è un valore che può fiorire bene sulla base della trascendenza della fede cristiana rispetto ai legami religiosi che sono spesso un tutt’’uno con la società civile. Sulla distinzione di fede e religione nel cristianesimo ne parlo altrove in questo libro. Confusioni sono facilmente rinvenibili anche nella vita dei cristiani. La caduta nel confessionalismo è sempre possibile, come la caduta nel secolarismo.

Inoltre la politica ha una sua dignità, un servizio nella carità, un esercizio dell’’autorità che non può essere esercitata a nome proprio, ma secondo il disegno di Dio. Per fare solo un esempio: è nota la difficoltà dei politici nel cercare di associare la solidarietà con la libertà; non si tratta, infatti, di trovare una terza via tra socialismo e capitalismo, entrambi fortemente erronei sia sul concetto di solidarietà (spesso assistenzialista e statalista), sia sul concetto di libertà, spesso foriera di soprusi sui più deboli; si tratta di capire la dignità inalienabile di ogni persona, sia nel rispetto della sua libertà, sia nei legami sociali che la sostanziano e la rendono solidale. La pratica politica dovrà servire al meglio le due esigenze. A seconda delle esigenze un vlido politico saprà sottolineare ora la solidarietà ed ora la libertà. Ma è solo un esempio. E quando si devono risolvere i problemi della scuola? La scuola statale non dovrà far catechismo, ma neppure può essere neutrale, perché non esiste alcuna possibilità di neutralità. Non si può pensare ad una scuola puramente funzionale, essendo luogo di socializzazione; il problema profondo dell’’amore, del rapporto significativo nell’’ambito di comunità vitali opera nel segreto di ogni cuore, ben al di là della presa di coscienza e ben al di là di quella che noi crediamo libertà di scelta. La scuola può influenzare il destino di tutta la vita.

Nonostante l’’attacco di molti teologi antimetafisici, il Magistero non ha mai abbandonato il tema della legge naturale. Quando fu impostata su basi metafisiche puramente essenzialiste (Suarez) si arrivò all’’obbrobrio della legge naturale etsi Deus non daretur, tanto è grande la presunzione della ragione astratta di poter inquadrare tutto nelle essenze. Quell’’impostazione ha sempre portato ad una sana reazione e ad un improvvido rigetto. Si era arrivati, dopo Kant e con grandi sicurezze illuministe, a sostenere una morale autonoma, che non deve niente a Dio. Oggi occorre ritrovare la tematica della legge morale naturale come legge divina, nell’’intreccio di sapienza, religiosità naturale, religione civile, peccato, bisogno di salvezza. Benedetto XVI faceva notare: «Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi che non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’’essere stesso», e aggiungeva: «Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero della natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri»20.

Rimarrà sempre fondamentale il discoro tenuto da Benedetto XVI al Reichstag, al Parlamento tedesco, proprio sulla legge naturale. Dopo aver chiarito la necessità di poter distinguere il bene dal male da parte dei politici, pena la possibilità di ricadute nella barbarie sperimentata dalla Germania, afferma: «Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’’armonia che però presuppone l’’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. (…) Se con ciò fino all’’epoca dell’’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine». Esamina poi brevemente la caduta in un positivismo giuridico radicale, che non ammette ricorso a verità oggettive e aggiunge «Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’’intenzione essenziale di questo discorso». Riflette a questo punto sulla reazione ecologista all’’arbitrio dell’’uomo sulla natura e, chiarendo che la sua non è posizione politica, invoca un’’ecologia per l’’uomo: «Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’’ecologia dell’’uomo. Anche l’’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana». E conclude richiamando la grandezza delle radici d’’Europa basate sulla fede nella creazione propria degli ebrei e dei crisgtiani e sulla razionalità intrinseca alla creazione propria anche dei greci.

Prima o poi una legge morale naturale occorre invocarla, altrimenti non si potrebbe più parlare di giustizia e anche Hitler avrebbe fatto bene a comportarsi in quel modo. Solo la legge naturale (cuore della laicità) può garantirci dai totalitarismi e dal fondamentalismo religioso21. È impressionante come si evade il confronto con la legge naturale; eppure non se ne può proprio fare a meno e tutti prima o poi (più volte al giorno) la invocano, magari senza accorgersene. Il problema è che con il fideismo la si invoca solo in senso moralistico, come minimo di legalità. Si torna a Grozio. Si torna ad una formalità morale riportabile a leggi razionali. Della natura umana, della vera moralità sempre a sostegno dell’’amore, nel gioco della libertà e della coscienza, della solidarietà e della socialità, non se ne parla. Ricorrere alla legge naturale senza una vera sapienza porta ad essere ignorati da chi difende altri valori morali con il sostegno di una cerchia significativa, perché tutti hanno una morale, ma dentro i legami forti che sostituiscono la chiesa, qualunque sia il loro credo; e ogni soggetto collettivo giustifica una morale che spesso ha qualche punto diverso dalla legge naturale e per questo non la si vuole prendere in considerazione. Eppure tutti diciamo “è giusto” o “non è giusto”, sicuri di aver ragione in modo oggettivo. E difatti, come dimostra Michael Dummet, noi siamo sempre disposti a prendere sul serio la pretesa di verità implicita in ogni asserzione, altrimenti non ci sarebbe la possibilità di un pensiero definito dietro il nostro asserto; parleremmo per non dire nulla. Se lo scettico (oggi diremmo l’’assertore di un pensiero debole) ci convincesse che colui che parla è il primo a non dover prendere sul serio la pretesa di verità delle sue asserzioni, allora, conclude Dummet, scenderebbe su di noi «una maledizione peggiore di quella che Dio ha imposto ai costruttori di Babele: invece che parlare diversi linguaggi non parlare affatto un vero linguaggio»22. Ma la consistenza di una verità morale iscritta nelle cose ha valore solo se si fonda su Dio e sulla pienezza dell’’essere creato, non certo su essenze iscritte nelle cose e astraibili dalla ragione prescindendo da Dio. Nell’’essere e non nelle essenze si attuano tutti i dinamismi ontologici e relazionali del creato, sostanziati dalla dimensione storica, dall’’amore, dalla libertà e dalla responsabilità verso gli altri. La legge morale naturale non è delle essenze, ma del dinamismo ultimo, divino, di tutto ciò che è creato e che partecipa l’’essere da Dio. L’’aver confuso la natura con ciò che è fisico o biochimico, o con il corporeo ha portato a considerare la storia e la cultura come contrapposte alla natura, come luogo di libertà da conquistare rispetto ai legami naturali. Ma la natura umana comprende la libertà e lo spirito, la storia e le relazioni, tutta intrisa del bisogno di amore. La legge naturale non è a difesa del corporeo ma dell’’umano, corpo compreso. L’’insofferenza verso di essa anche da parte di tanti teologi e pastori può rifarsi al fatto che è concepita in modo razionalistico, senza tutto lo spessore relazionale del consenso in una appartenenza primaria (sociale, cromosomica, spirituale, religiosa, come abbiamo visto). È questa appartenenza a creare imprevedibili forzature al senso comune e alla semplice verità dei dieci comandamenti o delle componenti naturali per la famiglia o altro. Ma ciò non vuol dire che non ci si possa fidare e affidare alla legge naturale, ma vuol dire che occorre approfondire tutto il tema del consenso in un gruppo primario, come natura profonda e abissale del cuore umano e delle relazione sociali.

Nel Documento della Congregazione per la dottrina della fede su cattolici e politica si invoca il riconoscimento della legge morale naturale come fondamento della vita sociale e come riferimento obbligato per le leggi dello stato. Si chiarisce che «non si tratta di per sé di valori confessionali, poiché tali esigenze etiche sono radicate nell’’essere umano e appartengono alla legge morale naturale. Esse non esigono in chi le difende la professione di fede cristiana. (…) La promozione secondo coscienza del bene comune della società politica nulla ha a che vedere con il “confessionalismo” o l’’intolleranza religiosa. Per la dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica –ma non da quella morale– è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è stato raggiunto» (nn. 5-6). Già in queste parole si nota un problema che avremo modo di affrontare nell’’ultima parte: se è la morale che costituisce il cuore della cultura e della politica, o la sapienza aperta al trascendente, al fine ultimo naturale, a Dio. Maritain ha indicato la morale e vedremo che questo ha causato il fallimento del suo pur giusto tentativo di fondare una filosofia della storia. Questa filosofia pratica è assolutamente necessaria e mai nessuno è riuscito ad impostarla. Maritain, con Rosmini e pochi altri, si è avvicinato ad essa, ma si è fermato di fatto solo sulla morale come punto trascendente che dà senso storico, umano, agli avvenimenti terresti. Occorre un’’apertura a Dio che fonda la religione civile, non necessariamente confessionale, perché la confessionalità si esercita nelle varie religioni storiche, con rispetto laicale dell’’appartenenza confessionale di ogni cittadino. Se non si riesce a distinguere il bisogno sapienziale e religioso dell’’uomo come fondamento della dignità della persona e delle relazioni di amore dalla pratica confessionale con le sue particolarità cultuali e rituali, con la sua obbedienza ai capi religiosi, non si arriverà mai a fondare una vera laicità che non sia confessionalismo o secolarismo laicistico. Ci sembra che nella Nota si sia rimasti alla posizione di Maritain, lasciando alla Rivelazione l’’esplicito riferimento a Dio. Il problema semmai consiste nel far aprire gli occhi ai “laici” atei o agnostici che la loro posizione è di fatto religiosa, come altrove mostriamo. Se non si arriva a questo non si può arrivare al rispetto di tutte le appartenenze in un consesso di convivenza democratica. Oggi il “confessionalismo” laicista sta affossando le famiglie, l’’educazione, la sapienza. Si deve poter dialogare meglio sui temi umani, senza la presunzione di essere sempre nel vero e gli altri nel torto delle loro chiusure. Se i relativisti non si accorgono che anche loro sono fondamentalisti, non si potrà instaurare un dialogo del tipo di quello ecumenico, capace di rispettare le appartenenze altrui, ma in ricerca dell’’uomo più uomo.

Eppure il problema viene dal fondamento. Anche nel documento citato si finisce per dare l’’impressione che il fondamento della legge naturale sia Cristo e pertanto la fede, per come può essere visto Cristo da parte dei non credenti. Se noi non riusciamo a distinguere una analogia cristica tra il vissuto di perfetta umanità di Gesù di Nazaret e la sua nuova condizione di risorto, come vedremo, al parlare di cristocentrismo, come si può pensare che incalliti illuministi possano accettare come fondamento della laicità il Cristo stesso? Il Documento, a sostegno del fatto che la legge morale naturale, che è per tutti, logicamente è anche dei cristiani e che la Chiesa può chiarirla a fondamento dell’’agire politico in quanto è per tutti, dice: «Il tralcio, radicato nella vite che è Cristo, porta i suoi frutti in ogni settore dell’’attività e dell’’esistenza. Infatti, tutti i vari campi della vita laicale rientrano nel disegno di Dio, che li vuole come “luogo storico” del rivelarsi e del realizzarsi dell’’amore di Gesù Cristo a gloria del Padre e a servizio dei fratelli. Ogni attività, ogni situazione, ogni impegno concreto –come, ad esempio, la competenza e la solidarietà nel lavoro, l’’amore e la dedizione nella famiglia e nell’’educazione dei figli, il servizio sociale e politico, la proposta della verità nell’’ambito della cultura- sono occasioni provvidenziali per un “continuo esercizio della fede, della speranza e della carità”» (n. 6). Sono parole che valgono all’’interno della fede, ma non possono essere additate come fondamento della laicità e della legge morale naturale. Con queste premesse si perde la possibilità di far cultura.

Non basta una soluzione pendolare: tolgo il fondamento divino, con il suo dinamismo spirituale di tipo ultimo, della legge naturale, ma ricorro ad essa quando non se ne può fare a meno; per il fondamento pendo dalla parte della fede, per i casi concreti mi rifaccio alla ragione. Giovanni Paolo II afferma, nella Centesimus annus: «La radice del moderno totalitarismo è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l’’individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non lo può fare nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla» (n° 45). Parole giustissime, che però richiedono la luce sull’’intreccio naturale-soprannaturale della trascendenza. Perché il fondamento della democrazia è il fine ultimo naturale, non quello soprannaturale, pur richiamando la complessa problematica dell’’intreccio natura-grazia-peccato e l’’importanza di evitare un parallelismo di fini ultimi e la superficialità di puntare solo al fine ultimo naturale, visto il suo intreccio col peccato. Concretamente: quell’’immagine divina che dà dignità trascendentale ad ogni persona rispetto alle strutture di potere o di servizio, è di grazia o di natura? Mi immagino il fastidio di teologi e pastori a questa domanda che sembra rimandare ad un passato che si vuole del tutto sepolto. Se è di grazia e c’’è solo il fine ultimo soprannaturale, tutto l’’umano, lo storico, il politico, la democrazia stessa sarebbero solo problemi aperti che attendono la rivelazione per essere risolti con la fede. Concordo invece sul fatto che dopo il Vaticano II non si può certo impostare il problema come ai tempi di Leone XIII. La presenza della fede nella nostra cultura e la presenza del peccato in tutte le culture deve portare i cristiani ad essere sempre coscienti che l’’immagine divina la si vive in Cristo, ma la si propone in dialogo culturale, con la sua autonomia sapienziale, concettualmente ben individuabile, dai contenuti diversi da quelli teologici. La storia insegna ampiamente due cose: che il mondo avulso dalla fede si allontana sempre più dall’’uomo e che i cristiani, puntando tutto su Cristo di fatto trascurano il compito culturale, trascurano l’’umano. Evidentemente è difficile far cultura senza l’’aiuto indiretto della fede, anche se ciò non si può usare come argomento per sostenere le nostre ragioni culturali presso i non cristiani; questo ci deve spronare a far meglio cultura; ad essere più vicino ad ogni uomo nei suoi problemi. Allo stesso tempo il cattolico deve scoprire sempre meglio che anche lui, se non risponde alle sollecitazioni della storia umana, diventa disumano, prestando il fianco a tante critiche e a tante presunzioni del laicismo. Quante volte si è dovuto constatare che accanto a tanti sforzi teologici e pastorali rimane il deserto dell’’umano. Oggi, quando l’’uomo è passato dalla società sacrale ad un dinamismo storico portatore di beni ma anche di tante tentazioni secolaristiche, la fede cristiana, attraverso la sensibilità umana dei cristiani, deve intercettare proprio i problemi della storia fatta dagli uomini e non solo come susseguirsi di stagioni sotto l’’egida della provvidenza divina.

Nelle società sacrali il senso della vita veniva dalla tribù, dalla compagine sociale in cui ciascuno aveva il suo ruolo ma per comporre una sinfonia sacrale. Con l’avvento del cristianesimo la sacralità storicizzata degli ebrei ha dato luogo ad una autonomia della storia rispetto alla sacralità e pertanto, in cortocircuito indebito, rispetto alla religione e anche alla fede cristiana. Ora si cerca il senso della vita dalle prestazioni legate al lavoro, alla politica, alle scoperte scientifiche, al progresso incredibile della tecnica, senza una accorta fondamentazione della storia nella trascendenza, senza un vera filosofia della storia o sapienza del vivere nel mondo. La storia diventa illusione di un futuro migliore o tragedia di sforzi frustrati. In questo scenario sempre più caotico ma anche sempre più spento, il cristiano deve intercettare i cuori umani nel loro humus storico, ma con una filosofia della storia che raddrizzi le risposte da dare agli interrogativi pressanti della vita. Non sarà con filosofie astratte o con ricette morali che si possa intercettare le istanze dei cuori, ma con un vivere storico, un faciendum, che convinca di un modo più giusto di orientare gli sforzi umani.

Di fatto si può dire che per essere laicali occorre essere molto soprannaturali altrimenti o clericale o mondani (sviluppa), ma, se siamo veramente laicali, potremo esercitare un richiamo molto più consistente verso coloro che non credono, in nome dell’’uomo. Nella teologia il nominalismo ha creato una corrente antimetafisica, che lega il divino alla fede e lascia il mondo al secolarismo, senza legge naturale. Il neofideismo non è propriamente nominalista e antimetafisico, né nega esplicitamente la legge naturale, ma non offre alcun fondamento ad essa, rifuggendo da una metafisica essenzalista, mai del tutto negata, ma neppure amata (giustamente). E così non si morde sull’umano, in modo realistico.

Occorre riscoprire il fondamento. L’’enciclica Fides et ratio è praticamente destinataspinge a proporre una formulazione comprensibile di tale fondamento, anche se di fatto proprio in quel testo il fondamento rimane tropo misterioso per la mancata precisazione sul dinamismo ultimo naturale. Senza finalità naturale non c’’è alcun modo di dare un fondamento alla morale scritta nel cuore dell’uomo. Tutti ammettono una qualche autonomia delle realtà create, ma sono parole vuote che richiedono una interpretazione filosofica e non basta certamente fare delle realtà create una domanda che attende unicamente la risposta della fede. Da qui la debolezza culturale dei cristiani e il dialogo monco con il mondo che ci circonda. E così il secolarismo invade, ormai, anche la vita privata dei cristiani.

1 Si ha tale orrore della “natura pura” che non si sa vedere ciò che è di “pura natura” nell’estrema ricchezza del reale. Se si distingue la natura dal peccato e dalla grazia, pur non potendola certo separare allo stato puro, si coglie perfettamente ciò che è di natura e ciò che è di grazia. I figli nascono dalla mamma, con tutto ciò che comporta di vita affettiva, familiare, sociale, ed è tutto di pura natura, ma non essendo solo un fatto fisico si insinua sempre il peccato, l’idolatria, il figlio come diritto e possesso, la non gratuità propria della maternità vissuta in modo autoreferenziale. E che dire dell’amicizia, del lavoro, della capacità artistica, della responsabilità sociale: tutti contenuti di pura natura; concepibili con la ragione e vivibili con talenti o virtù umane. Ma non si danno allo stato puro e il peccato offusca e indebolisce. Solo con la grazia si può recuperare in parte il cuore “incurvato” del peccato, ma con nuovi contenuti soprannaturali, che aiutato a recuperare i contenuti naturali veri.

2 Il Cardinale Ruini ha fatto un accenno ai laici nel senso che mi sta a cuore; rivolgendosi ai Vescovi italiani il 20 maggio 2002, dopo aver sollevato la questione antropologica, aggiunge: «La missione cristiana comprende anche, nelle attuali circostanze storiche, un impegno paziente e capillare per far emergere, nella loro innegabile realtà e nel loro decisivo valore, tutte quelle caratteristiche proprie dell’uomo che lo distinguono da ogni altro essere vivente nel mondo a cui apparteniamo. (…) Fa parte di una tale responsabilità anzitutto la testimonianza esplicita di Cristo unico Salvatore, ma anche il proporre nel concreto del tessuto sociale quei criteri e norme di vita che sono conformi all’autentica realtà dell’uomo»

3 A. Scola, o.c., p. 58.

4G. Biffi, Canto nuziale, Jaca Book, Milano 2000, pp. 60-61.

5 Basti pensare ai musulmani che convivono con noi. Dialogare religiosamente è impossibile. Per dialogare occorre essere disposti a porci in discussione ed è chiaro che né i cristiani né tantomeno i musulmani possono fare ciò. Si dovrebbe potere dialogare sui fondamenti naturali, universali, della religiosità, ma i musulmani mancano da secoli di un minimo di filosofia. Eppure si vive insieme. La politica può fare qualcosa, dovendo intervenire sui rapporti pubblici. Ma ancor più può fare la società civile, se fosse favorita da una giusta azione culturale e da una filosofia della politica ben diversa da quella hegeliana (statalista) che domina in Italia. Nella vita sociale di ogni giorno, nel lavoro, nella scuola, nella piazza, occorre convivere, decidere, valutare i problemi. Lì anche i musulmani potrebbero essere invogliati a ragionare.

6 JL: Illanes, Para una fundamentación de la acción del cristiano en el mundo, in “Scripta theologica” XXXII (2000) n. 1, p 98.

7 Ibid., p. 87.

8 La cultura è in mano di potentati e movimenti ideologici estranei o anche contrari al cristianesimo. Ma non bisogna pensare che da quella strada non si può fare qualcosa di significativo. A parte che il comunismo al potere è crollato anche sotto spinte culturali e sociali, oggi è sempre possibile un coinvolgimento più esteso attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Il successo in Italia di Grillo e del suo movimento dimostra che c’è molto spazio per una azione culturale innovante. Purtroppo proprio l’esempio citato dimostra che non sono i laici cristiani a muovere le leve culturali.

9 P. Rodriguez, La identidad teologica del laico, Relazione all’VIII Simposio Internazionale di Teologia, La mision del laico en la Iglesia y en el mundo, Pamplona, 22-24 aprile 1987, pp. 106-108.

10 Per capire la forza di una “attesa” da parte di una comunità forte rimando al paragrafo sul bisogno radicale di amore per il cuore umano. Tra i discepoli di sant’Alberto Magno si sentiva una forte “attesa”, da parte del maestro ammirato di una sintesi superiore tra la tradizione agostiniana e quella aristotelica che si andava sempre più configurando in Europa. Tommaso, tra quei discepoli, probabilmente fu molto influenzato da questa “attesa”, che diede spinta al suo grande acume orientandolo alla sintesi superiore.

11 Lettera 9-I-1932, n. 45.

12 M. Toso, Per una laicità aperta, Edizioni Lussografica, Caltanissetta 2002, p. 19.

13 Ibid. p. 23. Su questa tematica si può consultare G. DALLA TORRE, Il primato della coscienza. Laicità e libertà nell’esperienza giuridica contemporanea, Studium, Roma 1992.

14 Ha aperto il dibattito G.E. RUSCONI, Possiamo fare a meno di una religione civile? Laterza, Bari 1999; ID, Come se Dio non ci fosse, Einaudi, Torino 2000. Tra i tanti interventi si può vedere V. POSSENTI, Religione e vita civile. Il cristianesimo nel postmoderno, Armando 2001; AA.VV., Laici o laicisti? Un dibattito su religione e democrazia, a cura si V. Possenti, Liberal Libri, Firenze 2002.

15 Un autore decisamente esplicito sulla qualificazione religiosa della società civile è P. Donati: «La costruzione di una società civile coincide con quella della definizione della sfera pubblica come sfera laica religiosamente qualificata» (P. Donati-I. Colozzi, Religione, società civile e stato: quale progetto?, Ed. Dehoniane, Bologna 2002, p. 108; cfr P. Donati, Universalità, particolarità, neutralità del fenomeno religioso: è possibile una sfera pubblica religiosamente qualificata?, in R. De Vita (a cura di), La religione nella società dell’incertezza, Milano, Angeli 2001). Il nostro A. afferma: «Come tutte le ricerche sociologiche confermano, il fattore religioso resta il più discriminante nel decidere quale sia il complesso simbolico che guida i comportamenti più significativi delle persone umane. Interrogarsi, dunque, sulle matrici religiose delle varie concezioni e pratiche di società civile fornisce la base di partenza del discorso», ibid., p. 6. L’uomo è sempre mosso nel suo pensare ed agire da motivi ultimi, di senso, che si caricano di assoluto, anche tra gli atei. In questo senso è sempre vero quanto ci dice Donati: «Dire che ogni società ha una sua matrice teologica, vuol dire che ogni società (inclusa la scienza dominante che essa esprime) si rappresenta e si organizza in risposta alla domanda: “dov’è Dio?”. Se c’è un indicatore nelle svolte storiche dell’umanità, questo è il senso religioso. È a partire da esso, e in esso, che si mostrano i segni e le anticipazioni di come una società configura il civile», P. Donati, Dio, relazione e alterità: la matrice teologica della società civile dopo-moderna, in G. Barzaghi-E. Morandi (a cura di), Per ripensare il nostro tempo: relazione, alterità e verità, in Divus Thomas, 101, 3, p 126. A voler fare una precisazione, non direi “matrice teologica” quanto “matrice trascendente”, in quanto occorre rimanere nella religiosità naturale, comune a tutti gli uomini, atei compresi, come dico altrove, mentre la parola “teologico” è meglio riservarla al soprannaturale, alla rivelazione e alla vita di fede cristiana, che trascende la società civile, anche se si sposa con essa.

16 Emblematica è stata la legge sul divorzio: furono molti, non solo cattolici, convinti antidivorzisti che si lasciarono convincere a votare a favore del divorzio (sia in parlamento che, in grande numero, nel referendum) per non imporre ad altri le proprie idee. La sera stessa del referendum l’Italia, che era ancora a forte maggioranza antidivorzista, di colpo era diventata divorzista!, con una deriva secolaristica dirompente: quel 20% circa di antidivorzisti ingannati da un falso concetto di democrazia, sono stati contati come italiani pienamente favorevoli al divorzio. Per non parlare dell’effetto devastante posteriore, tanto che oggi questa nostra annotazione contro il divorzio può sembrare ridicolo anacronismo.

17 Non è difficile capire che a mettere l’assoluto democratico sulla tolleranza si finisce per non poter più trasmettere valori gli uni agli altri, e in modo drammatico a non poter più educare i giovani. Molte istanze del ’68 hanno eroso la relazionalità preposta alla trasmissione di contenuti umani. La tolleranza non è valore ultimo. È la persona il valore ultimo e questo si ottiene mettendo l’assoluto sull’amore, di cui la tolleranza è uno dei tanti aspetti.

18 Abbiamo già citato il libro di Miguel Benasayag e Gerard Schmit Le passioni tristi, con la chiara denunzia che la società è in crisi per mancanza di futuro, di un telos, di una finalità in cui riconoscersi.

19 Nella Fides et ratio, nella nota 28, Giovanni Paolo II dice: «In effetti la religiosità rappresenta l’espressione più elevata della persona umana, perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga dall’aspirazione profonda dell’uomo alla verità ed è alla base della ricerca libera e personale che egli compie del divino», riportata dall’Udienza generale del 19 ottobre 1983.

20 Discorso ai Vescovi italiani riuniti in Assemblea, giovedì, 27 maggio 2010.

21 Affermava Giacomo Leopardi: “La natura è un gran contravveleno e medicamento in ogni corruzione umana, e un gran faro in mezzo alle tenebre dell’ignoranza, quando non sia spento da una ragione corrotta” (Zibaldone 133).

22 Prendo queste considerazioni da Roberta de Monticelli che rimanda al libro M. Dummett, La natura e il futuro della filosofia, Il Melangolo, Genova 2001.