Pubblicato su Studi Cattolici n° 673, marzo 2017

«Parlando della preghiera ho rivolto, all’abate John Eudes, una domanda che mi è sembrata contemporaneamente assolutamente fondamentale e un po’ ingenua: “Quando prego a chi rivolgo la mia preghiera?”. “Quando dico ‘Signore’ che cosa voglio dire?”. John Eudes mi ha risposto in un modo molto diverso da come mi aspettavo. Mi ha detto: “Questa è la vera domanda, la più importante questione che puoi sollevare; o almeno la domanda con cui puoi rendere più vera ogni altra domanda”»[1] Queste parole di Nouwen ci stimolano a prendere sul serio la nostra ricerca di un rapporto sincero con Dio. Di Dio non possiamo dire nulla, eppure proiettiamo in Lui i nostri desideri inficiati dal peccato. Ma Dio si è rivelato e tutto dipende da come ci lasciamo penetrare dalla sua Parola: «Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 15-18).

Ritorna anche nel testo di san Paolo la parola “Signore”. «Quando dico “Signore”, cosa voglio dire?». Per penetrare nel mistero di Dio è fondamentale distinguere la religione dalla fede. La prima è scritta nel cuore di ogni uomo e in tutti i rapporti sociali, anche degli atei, perché l’uomo è creato ad immagine divina e in tutti i rapporti cerca questa immagine. Dopo il peccato originale la cerca nelle “persone essenziali” che formano una “chiesa” in cui si cerca il senso della vita: chi sono io per gli altri? E nessuno può vivere individualisticamente, ma sempre in un “noi” per il quale ognuno è pronto ad ogni sacrificio. E difatti vediamo gente sacrificarsi e anche morire per cause diversissime, che rivelano una appartenenza primaria del cuore, dalla quale non si può mai prescindere. Anche i dettami individualistici della nostra cultura secolarizzata in realtà sono imperativi collettivi: se vuoi il nostro plauso devi dimostrare che tu sei l’unico artefice di te stesso. È la dittatura del relativismo di cui parlava Benedetto XVI. Ma il Dio della religione, anche là dove viene riconosciuto, come nelle grandi religioni, arriva al massimo al monoteismo, dove però Dio è singolo, e pertanto non può essere amore, ma potere. Potere supremo, capace di creare e di governare il mondo con la sua provvidenza e giustizia. Il Dio della religione è onnipotente e lontano. Allah è singolo e pertanto non può essere amore. Non ha un figlio e pertanto non può essere Padre. Difatti tra i 99 nomi di Dio nel Corano non c’è né Padre, né amore. C’è “misericordiosissimo”, ma nel modo come un imperatore romano poteva essere misericordioso con il gladiatore ferito, come un padrone può essere con un servo fedele per qualche suo errore. Non è la vera misericordia paterna. Dire “Signore” allora indica il potere. Dio può creare e lo fa da padrone. Gli uomini sono i suoi “sottomessi” come indica l’etimo di “Islam”. Servi, non figli. Padrone buono con i servi fedeli, padrone giustiziere con i servi infedeli. Padrone onnipotente che invoglia i servi a servire con zelo per godere della sua protezione, ma padrone che richiede una obbedienza sottomessa e un servizio incondizionato. È il Dio degli eserciti, ben presente ancora nell’Antico Testamento e invocato anche dai cristiani in tutte le loro battaglie, quando il cristiano vive di religione e non di fede.

Il rapporto con Dio della religione è attraverso il sacro: Dio rimane lontano, nella sede celeste. È Signore come padrone, per buono che lo si veda. Per questo san Giovanni Paolo II poteva dire (in un mio riassunto) che il demonio non teme il Dio della creazione e dell’onnipotenza: lui attacca l’Alleanza.

Il Dio dell’Alleanza crea il mondo della fede. La fede infatti dipende dalla Rivelazione ebraico-cristiana. In Cristo Dio si rivela come Padre misericordioso, avendo un Figlio e un “noi” che è lo Spirito Santo, il Dio amore, il Dio comunione. Quando diciamo: Dio onnipotente, ci riferiamo al Dio-potere, creatore del mondo e capace di miracoli. Al dire “potenza di Dio” il Nuovo Testamento si riferisce al potere creatore dell’amore divino, lo Spirito Santo che scende su Maria e la rende madre di Dio, che scende sul cadavere di Cristo e crea l’uomo nuovo, in un disegno inaudito di amore. Nell’amore Dio si rivela come Padre: stabilisce un legame con noi, ma nella libertà dei figli. La creatura non è mai dio di se stessa: dipende. Ma c’è la dipendenza del servo e quella del figlio. La prima è di convenienza, la seconda è di libertà nell’amore. Un figlio obbedisce, ma non da servo. Se l’uomo vuol divere da dio, rifiutando un rapporto con Dio che è di servitù, diventa schiavo, come successe al figlio prodigo della parabola, che arrivò ad invidiare i servi di suo padre. Il fratello maggiore rimase sottomesso, ma rivela un cuore da servo. Il Padre della parabola rispetta la libertà dei figli, lascia partire il minore, ma sa recuperarlo a livello di figlio. E ci tenta anche con il maggiore.

Con la fede dire “Dio è il Signore” diventa tutta un’altra cosa. Fa riferimento al Regno, come Nuova ed eterna Alleanza, nella comunione primaria carismatica instaurata a Pentecoste dallo Spirito Santo. Si è creata, con nuova creazione, una appartenenza primaria nuova. Per primaria si intende la relazione sociale e spirituale che prende il cuore: “dov’è il tuo tesoro lì è il tuo cuore”. Tutti hanno una appartenenza primaria, ma in tribù variamente configurate, anche per chi crede di pensare solo con la propria ragione. L’appartenenza primaria ha la signoria del cuore: il valore sovrano garantito da certe prestazioni che si caricano di assoluto a sostegno del consenso presso il “noi” in cui ci si muove. Un bambino per la mamma è valore sovrano, detta legge. Un fidanzato per la fidanzata detta i tempi e i programmi della vita. Il lavoro per l’uomo dopo il peccato originale è diventato già in Adamo un valore sovrano che cerca di sostituire l’immagine divina con l’immagine davanti ad altri. Per il valore sovrano si è disposti a rischiare la vita, a morire in guerra, fino al terrorismo, che è problema di amore. Il peccato originale ha posto l’idolatria nel cuore umano.

San Paolo afferma: «Nessuno può dire: “Gesù è Signore!”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3). Si entra nel mondo della fede, mondo soprannaturale che richiede l’appartenenza primaria al Regno, nella realtà viva di una Chiesa che cammina nel mondo con nuclei di comunione primaria carismatica, e cioè con partecipazione reale al Regno, con legami di fraternità che incarnano il comandamento nuovo, come tra i primi cristiani e nelle realtà carismatiche, dove si cerca di viver il “cuor uno e anima una” delle primitive comunità. Sento tante esortazioni a vivere il Vangelo, specie rivolte ai giovani, ma le esortazioni non cambiano la vita. Ciò che cambia è l’appartenenza ad un cammino reale dove ci si ritrova con mete comuni di santità e di evangelizzazione. Non lo si può lasciare agli ordini religiosi e alle realtà carismatiche: ovunque si riuniscano cristiani in ogni parrocchia in modo particolare, ci deve essere una proposta concreta di camminare insieme: “dentro o fuori”, che non è un chiudersi, ma un abitare con vincoli di amore che aprono fino all’ultimo uomo[2]. La vera apertura non è quella di facilitare il Vangelo rinunciando a ciò che non piace a tanti, ma quella di chi si decide a viverlo sul serio, curando l’incontro personale con Cristo risorto, Signore del mio cuore, e la spiritualità di comunione in una realtà riconoscibile. Dalla preghiera e dalla comunione impregnata di carità nasce l’apertura della Chiesa su tutte le frontiere.

Purtroppo per secoli la Chiesa istituzionale ha governato la religione cristiana, lasciando Dio piuttosto lontano. Non mancava la catechesi di fede, ma non diventava proposta concreta di camminare col Vangelo. Lo Spirito Santo suscitava santi anche nel popolo, ma la comunione tra i cristiani mancava del carisma di Pentecoste, era socio-sacrale. Solo negli ordini religiosi si poteva scegliere un cammino di orazione, il dialogo intimo con Gesù che procura la signoria del cuore, insieme all’umiltà necessaria per vivere un vincolo di carità fraterna degna del Vangelo.

Se non c’è intimità di vita interiore e comunione fraterna superiore ai legami di amore umano, il rapporto con Dio rimane fuori dall’amore, nel potere. Dio è cercato per rafforzare i nostri poteri, è temuto secondo il suo infinito potere. È impressionante quanto il calcolo di potere possa entrare nella vita cristiana. Ad iniziare dai sacerdoti. Certamente per fare il bene occorre “poterlo fare”, occorre un certo potere. Ma quanto facilmente questo potere diventa sicurezza umana, confronto, carriera, lotta di potere, scoraggiamento nell’insuccesso, invidia di chi ha più capacità, pettegolezzo, ecc. Ci si può certamente rivolgere al Dio onnipotente perché ci aiuti a risolvere i nostri problemi quando sono superiori alle nostre forze; può essere un segno di fede, di fiducia. Il bambino nel bisogno sa ricorrere al padre e alla madre. Ma la molla del bambino è l’affetto, il “noi” familiare. È ben diverso studiare per compiacere i genitori dallo studiare in un orfanatrofio per paura delle punizioni o per l’orgoglio di primeggiare. Dove si vede bene se Gesù è Signore è nella sofferenza. Gesù non ci salva scendendo dalla croce, ma con un amore più grande di ogni croce. Mentre preghiamo il Dio della religione perché guarisca le nostre malattie, preghiamo in intimità, nell’amore, Gesù che ci stia accanto nella sofferenza. L’amore redime la sofferenza. Se il bambino ha un tumore, ai medici si chiede che lo guariscano, ma la madre che dorme con lui in ospedale lo sostiene nell’amore. Se muore dopo sei mesi ha ricevuto più amore che in 50 anni di vita normale; e anche lui ha dato più amore a tutto il parentado e compagni di scuola che in 50 anni di vita normale. Il conto dell’amore torna. Gesù ci salva non come i medici, ma come la madre. Il suo è un amore più grande non solo della malattia e della morte, ma di ogni croce che possa affliggere gli uomini. Questo è il mondo della fede: fede nell’Amore! Come è stato detto: il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio.

Distinguere meglio il Dio-potere dal Dio-amore può essere molto utile per il dialogo interreligioso. Alcuni cristiani lo ritengono una deriva verso il sincretismo, con perdita dello specifico cristiano. Ma in realtà, visto che il cristianesimo necessariamente è anche religione, si può dialogare al livello di religione, che ha una grande importanza per la vita dei popoli. La fede rimane nascosta al dialogo, perché è un mondo nuovo, che richiede nascere nel Regno. Chi non è cristiano può leggere il catechismo, ma non è vita di fede. Il dialogo con le altre religioni non lo si fa con il nostro catechismo, ma rispettando le loro appartenenze e approfondendo i valori sapienziali che sostanziano la vita dello spirito umano. Comunque i cristiani possono capire meglio che non si tratta di cadere in un sincretismo universalista che annullerebbe la nuova creazione e la salvezza. Dalla parte di Dio è evidente che Dio sia lo stesso per tutti. Ma dalla parte nostra ci sono idee di Dio o di surrogati ideologici che portano distruzione e morte, oppure una vita da servi. I sacrifici umani degli Atzeki, il messianesimo comunista (vera struttura religiosa), il fondamentalismo islamico o altro, non entrano in un dialogo interreligioso fatto da gente di buona volontà di cui è fondamentale rispettare l’appartenenza confessionale. Ma sarebbe importante capire da parte di tutti che ciascuno è convinto di aver ragione nella sua appartenenza primaria a prescindere dalla verità oggettiva. Questa si intravvede se osserviamo la differenza tra religioni diverse dalla propria. Una maggior riflessività in questo senso porterebbe ad un dialogo più umanizzante.

La distinzione tra il Dio-potere e il Dio-amore, inoltre, può attutire l’acrimonia contro la Chiesa cattolica, che si accentua sempre più. Non solo i protestanti han creduto, con qualche ragione insufficiente, di vedere troppo potere nella Chiesa istituzionale illudendosi di poter vivere di fede senza religione, ma oggi sono i secolarizzati che non possono sopportare il potere dei sacerdoti sulle coscienze dei fedeli. Certamente anche i secolarizzati dovrebbero capire che anche loro usano la ragione in funzione del potere di immagine presso la loro “chiesa” (nessuno ne può essere esento), ma se vedessero fiorire il Vangelo e la sua misericordia, ne sarebbero attratti o perlomeno non disturbati.

Può sembrare che Dio abbia fatto le cose molto complicate. In realtà ai suoi occhi sono semplici e anche facili. Distinguere la religione dalla fede nel cristianesimo, il Dio-potere dal Dio-amore, può far capire che per gli innamorati di Gesù tutto diventa semplice. Solo che gli innamorati di Gesù camminano fianco a fianco con i fratelli nella fede. Con la catechesi e la formazione è come se esortassimo i giovani a fare un bel matrimonio. Ma il matrimonio non si fa solo con le parole e i propositi personali, occorre fidanzarsi e camminare verso il futuro; occorre generare figli perché ci sia un padre che sperimenta la novità di vita. Però, mentre per il fidanzamento basta essere in due, per un cammino di santità nella Chiesa occorre che l’istituzione sia tutta protesa a costituire ovunque nuclei di comunione primaria carismatica, senza accontentarsi della catechesi o della predicazione.

Ugo Borghello

Bologna, 19 gennaio 2017

[1] H. Nouwen, Semi di speranza, Gribaudi, Milano 1998, p. 90

[2] Cfr U. Borghello, Nuova evangelizzazione e comunione primaria in parrocchia. Ed. Cantagalli, Siena 20152.