ABSTRACT
My opinion (which I have matured in a long time) regarding the problem of the relationship
nature-grace, creation-Covenant, anthropology and christology, faith-reason, Church and the world,
is that in order to achieve an effective cultural action, first of all, it is necessary to solve the problem
creation – Covenant, without returning to the past, to justify the problem that was historically meant
as a grace-nature relationship, which contains the one of faith and reason, and of anthropology and
christology. The post conciliation terminology, based on the Christocentrism, has not solved that
problem, it has only set it apart.
It is a theme that periodically excites theologians, but throughout history this has been rarely
done. When it comes to topicality, it arouses great interest and numerous publications, but easily
everyone remains on its positions. This does not surprise and does not prevent from maturing new
acquisitions. The Encyclical Fides et ratio reports some phases of this debate to highlight the
decisive contribution of St. Thomas.
After Thomas, history has shown that decisive insights on the topic are still needed. In the
middle of the past century, just before the debate came on, it provoked strong controversy and even
an intervention of the Pontifical Magisterium in the Encyclical Humani Generis. Then everything
apparently went off, but since then much has changed in Catholic theology, in favour of a faith
somehow free from certain speculative pastures and regenerated in its biblical roots. Given the fact
that the great theological renewal on the abandonment of the nature-grace theme leaves the latter set
aside.
Yet the problem of the relationship between nature and grace is imperious and calls for new
lights. The great biblical renewal alone cannot avoid the desolating weakening of Christians in
culture. There is still a real and widespread skepticism about the ability of reason to seize divine
lights on man's truth, family and social relationships, and on the possibility of contributing, even
culturally, to the deep discomfort in which we move.
It is easy to resort to faith, dropping arms in front of those who do not have it. But then, even
those who have faith, show great human weakness (in friendship, family, school, party, etc.), if not
immediately for themselves, for effective action around them. It is true that all attempts to make
reason, philosophy and humanity more autonomous have so far resulted in anthropologies separated
from faith, except for the great attempt of Saint Thomas (which, however, needs some insights.
Unfortunately, among those who thought of to do such insights many have ended up in the swamps
of an autonomous reason).
Hence the continuing temptation to extend the performance of faith even in the fields that
should be of culture. It is recurrent the belief that removing something from reason supports faith,
but it soon falls to the detriment of faith. It is true that faith illuminates God's plan for men and,
indeed, God has richly articulated his design and takes very seriously humanity, history, human
reason. Christians have to take more seriously the mankind and his problems, with a higher
synthesis that prevailing theology does not seem to grasp.

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Sguardo storico sul rapporto natura-grazia

Venendo più direttamente al tema che ci terrà occupati, il rapporto tra natura e grazia, possiamo rifarci ad un quadro lucido e sintetico del Card. Camillo Ruini, che ha sempre seguito questa tematica1.

Incomincia da san Tommaso, che certamente non era ad un livello di problematicizzazione critica tale quale si è venuto a dare nei secoli futuri. Dalla patristica aveva preso una visione sintetica, che ha mantenuto nonostante la sua forte presa di posizione metafisica e analitica. Dice Ruini: «Egli sviluppa e approfondisce le implicazioni di questa dottrina (della divinizzazione, ripresa dai Padri) mediante il confronto sistematico tra i doni della visione e della grazia e ciò che appartiene invece alla creatura intelligente (uomo e angelo) in quanto tale e a questo scopo impiega sistematicamente il concetto di natura: attraverso questo confronto costruisce organicamente la categoria teologica del soprannaturale» (p. 10). I beni divinizzanti sono detti supernaturales, o indicati con espressioni analoghe, composte sempre di due membri, uno dei quali esprime la trascendenza (equivale cioè a “super”) e l’’altro il termine di confronto con essa (“natura”, “proporzione alla natura”, ecc.). La visione di Dio è “beatitudine soprannaturale” e “fine soprannaturale” per ogni intelletto creato perché creato, quindi anche se innocente (prima della caduta). San Tommaso respinge esplicitamente come assurda l’’ipotesi di una creatura alla quale il lumen gloriae, la grazia e la visione di Dio fossero naturali, perché quella creatura dovrebbe essere di natura divina. «È da notare che l’’assoluta soprannaturalità della grazia e delle virtù teologali viene dedotta dall’’assoluta soprannaturalità del fine della visione, a cui esse ordinano. Il corrispettivo lessicale di questo sviluppo concettuale si trova nell’’uso di supernaturalis, che in Tommaso per primo è ormai tecnico e molto ampio, in riferimento alla visione di Dio e alla grazia. (…) San Tommaso afferma in maniera ugualmente esplicita che la visione di Dio e la grazia, in quanto trascendenti le forze e la proporzione della natura intellettuale creata, non possono essere dovute a tale natura. Il concetto tomista di “non dovuto alla natura” (non debitum naturae) esprime la libertà e gratuità del dono divino. Non però genericamente la libertà e gratuità della creazione, bensì l’’ulteriore libertà e gratuità del dono della visione di Dio e della grazia» (p. 12). Naturalmente Dio non deve nulla all’’uomo, in assoluto, ma è tenuto “con se stesso” a conferire alle creature quelle perfezioni senza le quali non sarebbero intelligibili. Così traccia una “media via” tra la totale necessità, per la quale tutto ciò che esiste nel mondo non potrebbe essere e avvenire diversamente, e la totale libertà per la quale ogni evento sarebbe puramente contingente e non sussisterebbero legami necessari tra le realtà del mondo (come sostengono i nominalisti e gli antimetafisici). Con ciò sostiene il dominio “religioso” di Dio sul mondo insieme all’’istanza scientifica dell’’intelligibilità intrinseca del mondo.

«Mentre san Tommaso afferma così, con logica pienamente conseguente, la trascendenza della visione e della grazia nei confronti della natura delle creature intellettuali, per lui è interamente pacifico che tutte queste creature sono state create per il fine della visione di Dio. Di più, egli sviluppa il tema dell’’immanenza della visione di Dio con forza uguale a quella impiegata riguardo alla sua trascendenza» (p. 12). Poi il Cardinale riprende brevemente la spiegazione che del desiderio naturale di vedere Dio dà san Tommaso nella Contra Gentiles, che noi riprenderemo in un apposito capitolo. «Come soltanto la visione di Dio può saziare il desiderio dello spirito creato ed essere così la nostra perfetta felicità, l’’unico fine pienamente e strutturalmente ultimo, così, coerentemente, san Tommaso parla sì di una felicità naturale (quella di cui hanno trattato i filosofi pagani), ma solo come felicità imperfetta e limitata alla vita presente. Essa non è concepita da lui come un’’alternativa alla visione di Dio: in realtà per san Tommaso non ci sono due fini veramente ultimi, bensì uno solo, appunto la visione di Dio2» (p 13). «Il problema di come la medesima visione di Dio possa costituire da una parte l’’unico fine ultimo della creatura intellettuale, oggetto di desiderio naturale che non può essere vano, e dall’’altra parte un fine totalmente gratuito e non dovuto alla natura intellettuale creata, non è posto e non sembra neppure avvertito da Tommaso in questi termini. La cosa ci appare strana, perché la teologia cattolica si affaticherà a lungo su questo problema a partire dal secolo XVI, ma non dobbiamo trasferire la nostra ottica ai tempi di Tommaso. (…) Nella medesima prospettiva vanno collocati i testi in cui san Tommaso, in modo apparentemente sorprendente, nega il desiderio naturale, o appetito naturale, della visione di Dio, a causa della soprannaturalità di quest’’ultima: il senso di questa negazione è quello di escludere la “sufficienza” dell’’inclinazione naturale a questo fine. Tentando di sintetizzare le maniere in cui san Tommaso affronta il problema del divario tra natura intellettuale creata e fine soprannaturale, bisogna concludere che non vi è nella creatura intellettuale soltanto uno squilibrio tra desiderio naturale e capacità naturale di ricevere, da una parte e forze naturali intellettuale creata e fine soprannaturale, bisogna concludere che non vi è nella creatura intellettuale soltanto uno squilibrio tra desiderio naturale e capacità naturale di ricevere, da una parte e forze naturale dall’’altra parte (questa è l’’interpretazione di De Lubac e di altri con lui), ma anche, e più profondamente, una distinzione nell’’ambito della stessa finalità: l’’orientamento finalistico naturale della creatura intelligente è soltanto insufficiente e incompleto, l’’orientamento finalistico completo è unicamente quello soprannaturale e gratuito e ha come unico termine la visione beatifica. Solo così possiamo rendere pienamente il “paradosso” dello spirito creato secondo san Tommaso3». Di fatto san Tommaso mantiene una visione fortemente unitaria, senza l’’estrinsecismo tra natura e grazia che Caietano e Suarez imporranno; la fede e il cristianesimo non possono essere marginalizzati, come avverrà con il deismo e l’’illuminismo. Allo stesso tempo però è proprio san Tommaso che apre la strada all’’autonomia del mondo e delle realtà create.

Ruini esamina brevemente ciò che è successo dopo. Il nominalismo ha introdotto una radicale contingenza in tutti i rapporti tra le realtà create, sopprimendo in sostanza il concetto stesso di “dovuto alla natura”, e quindi svuotando del suo peculiare significato anche il concetto opposto di “non dovuto alla natura” (tutto diventa, infatti, “non dovuto). Poi esamina la posizione di Caietano. Forzando san Tommaso là dove sostiene la gratuità piena della grazia, nega il desiderio naturale di vedere Dio nella sua essenza: le creature intelligenti desiderano naturalmente solo quel fine che è alla portata delle loro forze naturali. Ma è Suarez che giunge al concetto di “natura pura”, affermando che il fine della visione è superadditus rispetto alla natura umana. Si apre la strada alla rottura moderna dell’’armonia medievale tra grazia e natura. Baio reagisce affermando la connessione necessaria tra grazia e natura umana innocente. «Il Concilio Vaticano I, nella Costituzione dogmatica Dei Filius, ha proposto in maniera chiara e riflessa la distinzione tra ordine naturale e soprannaturale, soprattutto a proposito della rivelazione e della sua conoscenza (fede e ragione), rappresentando sotto questo aspetto in certo qual modo un punto di arrivo, ossia una piena esplicitazione ufficiale e magisteriale» (p. 17). Passa poi ad esaminare il modernismo con le sue istanze di immanentizzazione del soprannaturale. L’’Enciclica Pascendi ha chiarito che nella natura umana vi può essere una capacità e convenienza all’’ordine soprannaturale, ma non una autentica e propriamente detta esigenza.

De Lubac, preceduto da Y. De Montcheuil, opera un cambiamento profondo. Viene proposta infatti una diversa teoria dello spirito creato e quindi una diversa interpretazione della gratuità. Il desiderio naturale “assoluto” della visione di Dio esprime il fondo della natura dello spirito. Questo desiderio è bisogno, e in questo senso esigenza; bisogno essenziale di questo fine, che è iscritto nella natura stessa dello spirito. La finalità è infatti costitutiva dello spirito e non può essere mutata o aggiunta in seguito. Non è però del tipo del desiderio biologico, non desidera Dio come una preda, ma come un dono; esso vuole la comunicazione libera e gratuita di un Essere personale. La sua esigenza è dunque, paradossalmente, di non esigere nulla. Così tenta di salvare la gratuità del soprannaturale. Ne derivò una grande controversia. La critica notava che De Lubac riduceva la gratuità a quella della creazione, che pur è gratuita, mentre la grazia si dice gratuita proprio rispetto alle leggi e all’’intelligibilità della creazione che Dio si impegna con se stesso a salvaguardare. L’’Enciclica Humani generis affermò: «Altri corrompono la vera “gratuità” dell’’ordine soprannaturale, poiché sostengono che Dio non può creare enti dotati di intelligenza senza ordinarli e chiamarli alla visione beatifica» (DS 3891). Qui per la prima volta, fa osservare Ruini, il Magistero afferma direttamente che la gratuità del soprannaturale implica la possibilità della creazione di esseri spirituali senza la loro ordinazione al fine soprannaturale. De Lubac si è difeso ribadendo una duplice gratuità, senza però dare sostanza a questa affermazione, e dichiarando che parla dell’’uomo reale, senza negare che in teoria Dio potrebbe creare uomini con un fine ultimo naturale. Quest’’ultima affermazione è diventata l’’alibi più comune per coloro che negano una dimensione naturale di carattere ultimo. Ma è chiaro che un “futuribile” non può risolvere reali problemi metafisici. Le parole della Humani generis non riguardano le varie possibilità di creazione, ma il fatto che per alcuni Dio, creando l’’uomo, lo ha creato ontologicamente senza un fine naturale, e cioè senza una vera natura umana.

Il Concilio Vaticano II ha portato il tutto su chiave cristologica e storico-salvifica: quella cioè dell’’unica economia di salvezza rivolta a un unico fine, l’’incontro con Dio in Gesù Cristo che è il centro e il fine della storia. Si sottolinea qua e là la libera e gratuita iniziativa di Dio che ci chiama a partecipare alla sua vita intima. Si richiama una autonomia delle realtà create, distinguendo storia terrena e storia della salvezza, progresso umano e sviluppo del Regno. Proprio la congiunzione di cristocentrismo e autonomia delle realtà terrene sembra costituire l’’asse portante dell’’insegnamento del Concilio, in chiara analogia tra la dialettica di immanenza e trascendenza della grazia rispetto alla natura: l’’autonomia richiama infatti la consistenza propria della natura e quindi la trascendenza della grazia, mentre il cristocentrismo sottolinea l’’unica finalità soprannaturale nella quale tutta la creazione converge. Il Concilio tuttavia non riserva alcuno sviluppo esplicito al problema classico del soprannaturale, sia per rimanere in campo più pastorale che speculativo, sia per non incorrere nella polemica precedente, i cui artefici erano in parte presenti proprio nel Concilio.

«Alla luce dello svolgimento concreto del Concilio e del fatto che subito dopo di esso le posizioni del padre De Lubac si sono largamente diffuse, senza più suscitare opposizione da parte del Magistero e senza più essere dichiarate inaccettabili da parte dei più qualificati teologi, sembra potersi chiaramente concludere che l’’interpretazione della gratuità sostenuta da De Lubac, e da molti altri con lui, non è da ritenersi attualmente in contrasto con il Magistero, pur restando vero che essa non è compatibile con l’’insegnamento della Humani generis. Non è questo l’’unico caso nel quale, alla luce del Concilio, qualche posizione teologica trova un diritto di cittadinanza che prima non aveva. Sarebbe per altro verso del tutto infondato ritenere che oggi è l’’altra interpretazione della gratuità a essere non dico censurata ma teologicamente insostenibile. Entrambe possono liberamente confrontarsi, e anzi penso sia del tutto possibile e corretto, da parte di un teologo, continuare a pensare che vi sia una incompatibilità oggettiva tra le tesi di De Lubac e il carattere divinizzante e totalmente gratuito della salvezza cristiana, senza ritenere per questo che tale incompatibilità sia oggi da censurarsi: questa di fatto è la mia personale valutazione» (p. 21).

La svolta cristocentrica è determinante, continua il Cardinale Ruini. Occorre ricondurre in maniera più organica tutta la problematica di immanenza e trascendenza al suo nucleo e fondamento cristologico, che possiamo sintetizzare da una parte nel rapporto intrinseco che tutta la creazione ha verso Cristo e dall’’altra nell’’assoluta gratuità e imprevedibilità dell’’evento di Cristo. L’’approccio storico viene così ad aggiungersi necessariamente a quello ontologico4, che ha dominato la trattazione di natura e grazia nella teologia scolastica. Non si tratta di sostituire l’’approccio storico a quello ontologico: solo infatti se l’’immanenza e la trascendenza della salvezza hanno un corrispettivo nella struttura stessa del nostro essere, possono avere un significato profondo e autentico anche a livello storico. C’’è da aggiungere che la stessa prospettiva ontologica abbisogna di essere ripensata in termini ampiamente personalistici. In questa prospettiva più ampia e concreta, i rapporti tra salvezza cristiana e umanità devono essere inevitabilmente formulati in maniera non soltanto bipolare ma tripolare, aggiungendo la considerazione di quel capovolgimento che è richiesto per superare il peccato: in una considerazione teologica concreta non si può infatti prescindere dalla realtà del peccato. La cristologia è determinata anche a livello dei propri contenuti e costituisce così una determinazione e specificazione dell’’antropologia. Esiste pertanto lo “specifico cristiano”, a tutti i livelli, ossia la specificazione –e innovazione- cristiana dell’’umanesimo: in concreto della cultura, della filosofia, delle arti, della politica, ecc. Si tratta certo di una specificazione trascendente, e al contempo storica, perciò realizzabile e incarnabile in modi sempre diversi, non rigida e integralistica. Essa produce un modo di pensare personalistico e storico, perché ha la persona storica di Gesù Cristo come decisivo punto di riferimento. Ciò offre un approccio costruttivo con la nostra epoca e con tutte le circostanze della storia. Kasper parla di “cristologia universalmente responsabile”, che nasce dalla rivendicazione di Gesù di essere il salvatore unico ed escatologico. Ciò richiede una mutua fecondazione del cristianesimo con la filosofia, la cultura, l’’economia, ecc. Il peccato rende drammatica la storia e pertanto rende urgente tale collaborazione.

Fino a qui Ruini. Noi da questo quadro rileviamo la necessità di mantenere i due punti fermi: trascendenza e gratuità del soprannaturale, unità profonda del disegno divino. Meraviglioso equilibrio di san Tommaso, che però non ha tematizzato le modalità della profonda unità del disegno divino con la forza e la ricchezza umana dell’’autonomia naturale. Necessità di sinteticità senza cadere nel sintetismo soprannaturalistico, come pensiamo sia successo a De Lubac5 e a tanti altri. L’’impresa è ardua e occorrerà un lungo percorso per offrire nuove prospettive. Perfettamente d’’accordo sulla necessità di una impostazione tripolare, con l’’inserimento massiccio della problematica del peccato6. Reimpostazione cristocentrica, ma avendo presente che il cristocentrismo è debitore di precomprensioni filosofiche, più o meno coscienti, e soprattutto che esiste una analogia cristica, di cui nessuno ha mai parlato e che a noi sembra decisiva per non mortificare il nostro tema e per l’’urgenza di recuperare forza culturale. Gesù, che “rivela l’’uomo all’’uomo”, dà due tipi di risposte alle domande degli uomini, una sapienziale e una redentiva, perché in Gesù ci sono due “cause formali”, quella della sua perfetta umanità, dell’’uomo nato da donna, e quella gloriosa della sua risurrezione.

Riassumendo ci pare che ogni posizione equilibrata non può mortificare uno dei due elementi in discussione (natura e grazia), ma è pur vero che non si è ancora trovato un sentiero che porti ad unirli più in alto, senza dover sempre ricorrere al pendolo: ora parlo di questo e poi parlo di quello, accostandoli sempre ma senza capire dove si uniscono. Anche se san Tommaso, a mio parere, è andato leggermente più avanti di quanto Ruini ha riportato e certamente è colui che ha posto le basi solide per risolvere questo problema, non c’’è dubbio che anche lui ricorra al pendolo. In molti problemi la Chiesa ricorre al pendolo, tenendo forti due elementi chiaramente rivelati ma difficilmente spiegabili insieme; basti pensare al problema della libertà dell’’uomo e dell’’omniscenza divina, della grazia giustificante senza merito da parte nostra e la necessità di opere di carità7, o nell’’indicare una lettura unitaria della Parola di Dio quando ci si trova di fronte ad affermazioni bibliche apparentemente contraddittorie. Pastoralmente è bene e necessario fare così8, ma il teologo deve tentare unità superiori, per evitare riduzionismi, lotte, incomprensioni tra conservatori e progressisti, o cose simili. Riteniamo decisivo per le sorti dell’’uomo progredire oltre il pendolo nel rapporto tra natura e grazia.

Riteniamo anche, da Ruini, che il pendolo tra piena unità nella grazia ed esigenza di trascendenza naturale e gratuità del soprannaturale (che a noi interessa principalmente per sostenere la forza e l’’urgenza di una vera laicità oltre alla fondamentale importanza di non rischiare di confondere almeno in parte il dato di fede con quello religioso, che è di natura) deve portare al rispetto della posizione opposta. Oggi, dice il porporato, non crea problema al Magistero la posizione di De Lubac. Spero che non crei problema la mia posizione a chi è portato a negarla più o meno istintivamente, perlomeno per porre una serie di problemi improrogabili per alleviare le sofferenze umane e per la nuova evangelizzazione.

Un altro paragrafo tratto dallo stesso testo:

Si può affermare che il ritardo culturale da parte dei cattolici è immenso ed è causa principale del distacco tra la fede e la vita reale dei popoli occidentali. Da una parte è sconvolgente, presso la maggioranza, l’’ignoranza dei contenuti salvifici propri della fede cristiana. Basti pensare a come ci si pone di fronte alla sofferenza oggi. Dall’’altra la cultura diffusa è piena di equivoci, presunzioni, errori sull’’uomo, sulla libertà, sull’’amore, tali da provocare danni dolorosissimi alle persone, alle famiglie e al tessuto sociale. In definitiva entrambi i drammi sono in gran parte dovuti ad un lungo disinteresse che ha provocato tra i cattolici un prevalere dell’’apologetica e della cura dottrinale negli studi teologici, mentre per i protestanti il disinteresse per la cultura era, perlomeno nella loro partenza fideistica, un dato imprescindibile. Fu così che la cultura si affermò sempre più in separazione e polemica rispetto alla fede.

Occorre anche dire che da sempre il rapporto tra fede e ragione è stato piuttosto problematico, a partire da entrambi i fronti. Conflitti di tutti i generi hanno spesso contrapposto gli uomini di fede e i cultori della ragione. Ma anche nell’’ambito della Chiesa cattolica si sono date posizioni assai diverse, causa di tante confusioni. La Fides et ratio parla di questi conflitti e dei diversi modi di concepire il rapporto tra fede e ragione. ; la scolastica tomista, basata sulla distinzione di essenza ed esistenza; la scolastica nominalista, che lascia il mondo alle scienze. Tutte e tre, in modi assai diversi, sono basate sul primato dell’essenza sull’essere; quest’ultimo viene inteso o come esistenza, o come reale, o come esse commune e non come atto ultimo e sommamente perfettivo dell’ente, e cioè come atto intensivo di essere. Ciò ha portato all’estrinsecismo proprio dell’essenzialismo: le essenze sono chiare e distinte. Estrinsecismo tra natura e grazia, con appiattimenti e svuotamenti sia del naturale che del soprannaturale. Grosso modo, senza alcuna pretesa di completezza, si può dire che fino al Concilio Vaticano II si sono combattute tre grossi schieramenti: la scolastica essenzialista, derivata da F. Suarez Il Concilio ha cambiato direzione, sorvolando sui problemi metafisici e dichiarando solennemente che Dio ha un unico disegno soprannaturale per l’’uomo: ci ha creati per averci in comunione trinitaria. Essendo tutto creato e redento in Cristo, il cristocentrismo ha preso il posto di fondamento per ogni problema riguardante l’’uomo. Ogni dualismo è stato spazzato via. La teologia si è di colpo sbarazzata dalle pastoie della metafisica essenzialista (pur con tante subdole ricadute) e ha preso un volo meraviglioso pur in mezzo a confusioni che hanno sconvolto, specie nell’’immediato post-concilio, la Chiesa. Mai si è scritto tanto in teologia, e con tante suggestioni. Il beneficio è stato immenso. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ha confermato e sistematizzato il cristocentrismo del Vaticano II, unificando il piano della creazione con quello della salvezza, in un unico disegno di Dio.

L’’istanza sintetica ha favorito il rinnovo teologico. Ma certamente ha lasciato scoperto l’’umano, il filosofico. Per anni la filosofia è stata bandita dai seminari. La parola metafisica era innominabile. Si è lasciato il mondo in balia di se stesso, per farne unicamente terra di missione e di compassione (mirabile) presso i sofferenti. Eppure dovrebbe essere chiaro che tutte le doti e le responsabilità storiche dell’’uomo rientrano necessariamente nelle articolazioni dell’’unico disegno divino.

La teologia ha compiuto un grande balzo con l’’accentuazione del valore storico-salvifico, reso possibile da un forte ritorno alla Scrittura. Il rinnovamento teologico, per tanti aspetti meraviglioso, era quanto mai necessario. Molti nella Chiesa ne hanno approfittato anche dal punto di vista pastorale; ma i cristiani in mezzo al mondo, pur con varie e lodevoli eccezioni, si sono sempre più allontananti dall’’humus cristiano, rendendosi sordi ad ogni luce proveniente da Cristo. Il mondo non sembra lasciarsi attrarre da una fede rinnovata. È certo che non solo la cultura secolaristica ha rotto quasi tutti gli argini, ma anche che la gente in massa la segue. Il mondo aveva lasciato residui di metafisica alle ideologie che hanno sconvolto l’’Europa nel secolo ventesimo, per lanciarsi nelpassare poi al secolarismo proprio di una filosofia nominalista, incapace di cogliere l’’aggancio oggettivo della verità.

La rinascita teologica, avvenuta ai margini della metafisica, ha percorso prevalentemente due strade: quella fideistica che vede solo il soprannaturale e sostituisce l’’essere con la grazia in una ontologia di grazia che scavalca la necessaria ontologia di creazione e quella più antropologica che cerca la salvezza dell’’uomo sulla base delle letture cangianti della cultura secolaristica. La prima viene necessariamente ignorata dal mondo, la seconda ne diventa la mosca nocchiera. Proposte teologiche avanzate da movimenti femministi cattolici, da una certa teologia della liberazione su basi marxiste, o certi tentativi di rinnovare la morale sulla base della rivoluzione sessuale in atto, per fare esempi a tutti noti, hanno usato la teologia in modo contraddittorio rispetto al dato rivelato. Visto l’’esito dirompente del secolarismo nella teologia, per alcuni decenni è prevalso l’’orientamento fideistico. La giusta istanza avanzata da De Lubac per un maggior sintetismo tra natura e grazia è stata portata avanti in necessaria polemica con la metafisica essenzialista, ma senza un sufficiente rinnovo della metafisica sulla base dell’’atto di essere che è del tutto necessario per non cadere nel fideismo o nel secolarismo. Con Papa Francesco ha ripreso vigore la corrente antropologica.

L’’Enciclica Fides et ratio vuoleva dare una direzione nuova alla teologia, su base metafisica, che la renda capace di mantenersi in dialogo con le istanze del mondo senza perdere la propria identità. Ma, a parte l’oblio della memoria che la circonda, rimangono da chiarire molti punti nevralgici. Sia il soprannaturalismo di tanta teologia antimetafisica, sia il cristocentrismo “obiettivo”, con il quale consentiamo abbondantemente ma con un netto distinguo, di fatto hanno portato a negare un compito specifico dei cristiani in quanto laici, per definire compiutamente il laico cristiano secondo una pienezza di vocazione e missione nella Chiesa. Si dà per acquisito che laico voglia dire semplicemente cristiano, mentre per noi laico vuol dire uomo; uomo che, con l’’aiuto della grazia, recupera la sua umanità e l’’urgenza di un compito culturale da cui dipendono di fatto le sorti dell’’umanità, in quanto la cultura condiziona la fede e l’’uomo. È vero che la spinta data da Giovanni Paolo II e proseguita decisamente da Benedetto XVI è stata accolta da molti pastori e teologi, che si sono posti il problema della cultura e del rapporto tra fede e ragione. Ma l’’orientamento prevalente è quello di un umanesimo cristiano che a me sembra molto più sintetico di quello di Giovanni Paolo II. Si rimane sotto l’’egida della teologia o di una ontologia di grazia che non può dar ragione dell’’immensità di problemi e relazioni poste in atto dall’’ontologia previa. Si è più disponibili verso l’’uso della ragione; si cerca un’’efficacia culturale, si riconosce una certa autonomia delle realtà terrene, secondo il dettame della Gaudium et spes; però l’’indicazione conciliare ha bisogno di un più chiaro fondamento metafisico, altrimenti ognuno intende le autonomie secondo le proprie precomprensioni filosofiche. E così si nota una grande fatica ad entrare nelle autonomie dello spirito creato rispetto all’’azione dello Spirito Santo, deus ex machina di tutto ciò che non si sa spiegare per mancanza della metafisica dell’’atto di essere. Si sente il bisogno di armonie nuove e superiori, per convogliare le forze migliori ad alleviare le sofferenze immani degli uomini e favorire sviluppi sempre più consoni alla dignità umana. Si sente il bisogno, in altre parole, che i cristiani siano in grado di fare cultura, e cioè di dare un loro contributo decisivo a sanare e accrescere la cultura degli uomini, a tutti i livelli. L’’urgenza è data anche dal condizionamento negativo della cultura sulla fede dei semplici.

A noi sembra che il cristocentrismo “obiettivo”, e cioè il vedere creazione e redenzione in un unico disegno di Dio in Cristo, con finalizzazione al soprannaturale, si possa articolare in modo più profondo. Rimanendo unico il disegno di Dio “nascosto nei secoli”, si può dare più consistenza all’’umano, senza ricadere in schemi neotomisti o peggio ancora di “natura pura” che hanno portato ad estrinsecismi aridi tra natura e grazia. Ci sembra di estrema urgenza indicare ai laici cristiani il compito di sanare ciascuno, da soli o insieme ad altri, la porzione di mondo che è data a loro come vita e responsabilità storica, nei valori aperti al trascendente che non sono però soprannaturali. Ma ciò non si può fare con l’’attuale teologia del laicato. La cultura non può essere fatta a partire dalla Chiesa, pur dovendo ispirarsi e farsi aiutare dalle luci provenienti dalla Rivelazione. La cultura si fa affrontando i problemi insieme a coloro che li condividono giorno a giorno, ma non come Chiesa. Il laico in missione ecclesiale nel mondo non fa cultura; al massimo giudica il mondo e cerca di acculturare la fede. Fa cultura quando cerca di capirsi nei problemi in cui è immerso, con spiegazioni di ragione comprensibili da tutti. Nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, Giovanni Paolo IIafferma: «Non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’’essere umano» (n. 51)9. Di fronte a tale affermazione ci possono essere varie interpretazioni. Nessuno pensa che si possa far cultura con la sola ragione, come ai tempi della scolastica razionalista sostenitrice della natura pura o dell’’Illuminismo, ingenuamente convinto che si possa usare la ragione a prescindere dai problemi di senso, che condizionano profondamente l’’uso della ragione. Ma neppure è sufficiente riconoscere che ci sono problemi culturali di fondo individuabili dalla ragione, se si sostiene che hanno soluzione solo alla luce della fede. In tal modo non si possono applicare le parole citate, quanto mai urgenti oggi.

È nostra convinzione, maturata in una lunga attenzione al problema del rapporto natura-grazia, creazione-Alleanza, antropologia e cristologia, fede-ragione, Chiesa e mondo, che per arrivare ad una efficace azione culturale occorra innanzitutto risolvere meglio il rapporto creazione-Alleanza, giungendo, senza ritorni al passato, a dar ragione del problema che storicamente era inteso come rapporto grazia-natura, che contiene quello di fede e ragione e di antropologia e cristologia10. La terminologia postconciliare, basata sul cristocentrismo, non ha risolto quel problema, lo ha solo accantonato. Se ci capiamo sui termini il rapporto natura-grazia contiene quelli più circoscritti di ragione-fede o antropologia-cristologia. È un tema che a volte torna ad appassionare i teologi, ma lungo la storia ciò si è dato assai di rado. Quando diventa di attualità suscita grande interesse e numerose pubblicazioni, ma facilmente ognuno rimane sulle sue posizioni. Ciò non meraviglia e non impedisce di far maturare nuove acquisizioni. L’’Enciclica Fides et ratio riporta alcune fasi di questo dibattito, per mettere in luce l’’apporto decisivo di san Tommaso. La storia, dopo Tommaso, ha dimostrato che sono ancora necessari decisivi approfondimenti. A metà del secolo appena trascorso il dibattito si è acceso, suscitando forti polemiche e anche un intervento del Magistero pontificio nell’’Enciclica Humani generis. Poi tutto, apparentemente, si è spento, ma da allora molto è cambiato nella teologia cattolica, a favore di una fede più libera da certe pastoie speculative e rigenerata nelle sue radici bibliche. Proprio il grande rinnovamento teologico operato sull’’abbandono della tematica natura-grazia fa sì che oggi questo tema sia accantonato.

Eppure il problema del rapporto natura-grazia rispunta imperioso e chiede nuove luci. Il grande rinnovamento biblico non riesce da solo a evitare l’’indebolimento desolante dei cristiani nella cultura. Regna ancora un reale e diffuso scetticismo sulla capacità della ragione di cogliere luci divine sulla verità dell’’uomo, sui rapporti familiari e sociali, o sulla possibilità di contribuire, anche culturalmente, ad alleviare il disagio profondo in cui ci muoviamo. È facile ricorrere alla fede, lasciando cadere le braccia davanti a chi non ce l’’ha. Ma poi, anche chi ha la fede, dimostra grande debolezza umana (nell’’amicizia, nella famiglia, nella scuola, nella festa, ecc.), se non immediatamente per sé, per un’’azione efficace intorno a sé. È vero che tutti i tentativi di rendere più autonoma la ragione, la filosofia e la natura umana finora sono sfociati in antropologie separate dalla fede, eccetto per il grande tentativo di san Tommaso (che però abbisogna di approfondimenti; purtroppo tra chi ha pensato di operare tali approfondimenti molti sono finiti nelle paludi di una ragione autonoma). Da qui la continua tentazione di allargare le prestazioni della fede anche nei campi che dovrebbero essere di cultura. È ricorrente la convinzione che a togliere qualcosa alla ragione si favorisca la fede, ma ben presto ciò ricade proprio a scapito della fede. Basti pensare all’’accorato appello di Giovanni Paolo II che invita a non cadere nell’’inganno di chi accetta la Bibbia come richiamo alla trascendenza ma ne rifiuta i contenuti etici11. el problema.Per noi è un problema di rinnovo metafisico, che riteniamo già in atto da parte di pochi studiosi. Certamente l’Enciclica Fides et ratio sta aiutando a cambiare atteggiamento, ma occorre rielaborare continuamente i dati di fonSe è vero che la fede illumina il disegno di Dio sull’’uomo e pur vero che Dio ha articolato riccamente il suo disegno e prende molto sul serio l’’umanità, la storia, la ragione umana. In questo libro si dice che i cristiani devono prendere più seriamente l’uomo e i suoi problemi, con una sintesi superiore che la teologia prevalente sembra non cogliere.

1 C. Ruini, La questione del soprannaturale. Natura e grazia, in “Il nuovo areopago”, 19 (2000), n. 2-3, pp. 5-24.

2 Su queste affermazioni ultime non ci troviamo pienamente concordi. La felicità naturale, neppure per san Tommaso (non solo, cioè, per i filosofi antichi, che la pensavano con il culto dei morti, e cioè per l’eternità) è limitata a questo mondo. Ne fa fede la credenza di san Tommaso nel Limbo per i fanciulli morti senza battesimo; Ruini cita il Limbo, ma non ne trae tutte le conseguenze per capire la mente di san Tommaso.

3 La nostra interpretazione di san Tommaso differisce in parte da questa analisi di Ruini. Ci sono testi più che sufficienti per individuare il dinamismo ultimo naturale anche nelle creature intelligenti, e li citeremo. Ma è vero che san Tommaso non problematicizza sufficientemente il problema e anche è vero il fatto, su cui torneremo ripetutamente, che non dà la sufficiente importanza al dinamismo ultimo naturale perché i suoi tempi non erano sensibilizzati sull’importanza dei contenuti culturali che si reggono ontologicamente sul portato ultimo naturale, quali il lavoro umano, la responsabilità storica, la sapienza, la famiglia, la laicità, la politica, ecc. C’è invece da convenire che al momento di considerare il fine ultimo dell’uomo, come tale inteso, come unico vero fine, Tommaso pensa alla visione beatifica. Chiaramente, è la nostra posizione, occorre integrare qualcosa nella visione tomista.

4 A maggior chiarezza la parola “ontologico” in questo lavoro è sempre usata ad indicare l’esserci reale; un bambino pensato e desiderato non ha ancora una presenza ontologica: è necessario il concepimento. Sorvolo sulla differenza tra ontico e ontologico.

5 In questo lavoro appariranno molti rilievi alle posizioni di De Lubac. Eppure ritengo che il suo sforzo sia stato provvidenziale e che tanti frutti maturati sulla sua scia siano preziosissimi. Una sua istanza imperiosa mi trova perfettamente concorde, anche se penso che una insufficiente base metafisica abbia provocato in lui una eterogenesi dei fini. L’istanza che ci trova concordi la esprime bene Bruno Forte: «La grande intuizione teologica colta da Henry De Lubac nel vivo della ininterrotta tradizione cristiana: il dono e la presenza del Dio vivo, la grazia e il soprannaturale, non sono dati fuori della storia, quasi separando i salvati dalla loro stesa umanità e dalla solidarietà col mondo, ma nella storia e per la storia. L’uomo concreto –cristiano o meno- non è mai separato dall’amore di Dio in Cristo, ma vive sempre sotto il segno della grazia, offerta come puro dono alla libera accoglienza di tutti (…). La Chiesa non è la “cittadella” fortificata alternativa al mondo, bensì il sale della terra, il fermento posto nella pasta per crescere insieme con tutti verso la pienezza del Regno», B. Forte, La sfida di Dio. Dove fede e ragione si incontrano, Mondadori, Milano 2001, p. 136. L’istanza sintetica, l’unità del disegno divino, è di fondamentale importanza. Ma occorre dare la giusta consistenza a ciò che è naturale e storico; non basta uno spirito creato aperto al mistero se ogni luce sul mistero è unicamente soprannaturale. Su questo si svolge la nostra analisi e la nostra proposta.

6 Ritengo determinante in questo l’apporto innovativo esposto nel mio volume Liberare l’Amore.

7 Su questo rimando ai capitoli II e V del mio libro Saper di Amore, cit.

8 La Chiesa, i pastori, non devono attendere le soluzioni filosofiche o teologiche. Nella esperienza millenaria e con l’assistenza dello Spirito Santo, potendo oscillare in campi non precisamente dogmatici, la sapienza della Chiesa riesce a far fronte alle varie emergenze, oscillando, all’occorrenza dal dualismo al monismo, dalla libertà alla solidarietà, dalla trascendenza della grazia alla vicinanza di Dio. Tuttavia le oscillazioni spesso arrivano in ritardo, possono provocare opposizione e incomprensioni, spesso mantengono la conoscenza in un mondo a due dimensioni. È la terza dimensione che supera il pendolo senza eliminare i poli diversi. Certamente il pendolo ultimo è tra grazia e natura, tra trascendenza e immanenza del soprannaturale, tra estrinsecismo e intrinsecismo.

9 Non è facile saper distinguere i termini natura e cultura. Ciò che è naturale all’uomo si può conoscere con la ragione che cerca la verità oggettiva, universale, valida in tutti i tempi. Cultura, invece, si rifà alle conformazioni assunte nella storia in appartenenze sociali diverse. Eppure siamo sempre nell’ambito naturale dell’uomo, che proprio come natura è un essere storico e acculturato. Fa parte della natura dell’uomo il dipendere in gran parte dalla cultura, che di per sé è cangiante e diversa tra i vari popoli. Su base antimetafisica si giunge a contrapporre natura e cultura, in reazione alla metafisica essenzialista che toglie importanza alla cultura per definirla compiutamente con l’universalità delle essenze. Ben diversa e la prospettiva se si mette nel cuore della cultura non le essenze, ma le relazioni di amore, le appartenenze socio-religiose che decidono del senso della vita, spesso andando contro il senso comune di cui tutti gli uomini sono dotati. Comunque, per chiarire, quando si parla di natura rispetto alla cultura ci si riferisce a ciò che non può cambiare rispetto alle varie società. Quando si parla di natura-grazia, con la parola natura si intende tutto l’insieme di natura e cultura.
10 Oggi si è lasciato di pensare il termine “natura” come indicativo di tutta l’antropologia non soprannaturale, della materia come della storia, del corpo e dello spirito, della politica e della religione, della creazione inerte e della libertà. Lungo i secoli della filosofia essenzialista, dove la natura tecnicamente era intesa come essenza in quanto preposta all’agire, dimensioni come la storicità, il relazionale, l’originalità della persona non rientravano nel termine. Oggi è facile vedere contrapposta la libertà alla natura, la storia alla natura. Inoltre le scienze hanno dissolto un concetto essenzialista di natura. È solo questione di capirci e di delimitare o meno i contenuti del concetto. A rischio di far pensare che siamo ancora ancorati ad una problematica neotomista, usiamo questo termine piuttosto di altri (antropologia, ecc.) perché se ben inteso è onnicomprensivo di tutto ciò che non è strettamente soprannaturale. Concretamente per noi dire natura vuol dire anche partecipazione trascendentale dell’essere all’Essere, con un emergere della metafisica della persona sostanziata dall’amore oltre che dalla libertà. La metafisica dell’atto di essere permette un passaggio da un primato della sostanza al primato della persona, come soggetto aperto agli altri nella relazionalità trascendentale, diversa da quella accidentale. Siamo in una natura predisposta ai doni trinitari. Siamo in una ontologia che non si può chiamare “ontologia trinitaria”, ma che da questa riceve tanti suggerimenti. Se si vuole –come piaceva a Giovanni Paolo II- si può mettere il problema come incontro tra fede e persona umana, studiata con schiettezza fenomenologica, ma con il chiaro intento di raggiungere il fondamento metafisico reale. Se non specifichiamo diversamente, usiamo la parola natura per indicare ciò che è naturale rispetto a ciò che è di contenuto soprannaturale. Anche la parola “grazia” ha i suoi problemi, ma esprime il dono soprannaturale con contenuti più estensivi di tante altre dizioni oggi più usate, tipo cristocentrismo, antropologia teologica, ecc.

11 Cfr Giovanni Paolo II, Udienza ai membri della Pontificia Accademia Biblica, 30-IV-2003.